In occasione del 99° anniversario
della rivoluzione d’Ottobre, avvenuta il 7 Novembre 1917 (25 ottobre
secondo il calendario giuliano), pubblichiamo alcune pagine del libro di
Victor Serge, “L’Anno primo della rivoluzione russa” pubblicato nel
1930.
In questi estratti Serge spiega come
l’insurrezione dell’Ottobre rappresentò il culmine di un processo
rivoluzionario di massa e sottolinea il ruolo chiave del partito
bolscevico e della sua direzione. Nel farlo, l’autore replica a quegli
“studiosi” che oggi liquidano l’Ottobre come un colpo di stato o un
putsch.
— L’Anno primo della rivoluzione russa - Capitolo secondo - L’insurrezione del 25 ottobre 1917 - Il partito del proletariato
Le masse hanno milioni di facce; non
sono affatto omogenee; sono dominate da interessi di classe diversi e
contraddittori; non giungono a una vera coscienza – senza la quale non è
possibile alcuna azione feconda – che attraverso l’organizzazione. Le
masse insorte della Russia pervengono alla chiara coscienza dell’azione
necessaria, degli obiettivi da raggiungere, per mezzo del partito
bolscevico. Non è una teoria, è l’enunciazione di un fatto. I rapporti
tra il partito, la classe operaia, le masse lavoratrici ci appaiono con
limpida evidenza. Quello che vogliono confusamente i marinai di
Kronstadt, i soldati di Kazan’, gli operai di Pietrogrado, di
Ivanovo-Voznesensk, di Mosca, ovunque, i contadini che saccheggiano le
case dei signori, quello che tutti vogliono, senza avere la possibilità
di esprimere con chiarezza le loro aspirazioni, di confrontarle con le
possibilità economiche e politiche, di dare ad esse i fini più
razionali, di scegliere i mezzi più idonei per raggiungerli, di
scegliere il momento più propizio per l’azione, d intendersi da un capo
all’altro del paese, di informarsi, di disciplinarsi, di coordinare i
loro sforzi innumerevoli, in una parola, di costituire una forza
compatta, intelligente, istruita, volontaria, prodigiosa, quello che
tutti vogliono, il partito lo esprime -in termini chiari, – e lo fa. Il
partito rivela loro quello che pensano. Il partito è il legame che li
unisce tra di loro, da un capo all’altro del paese. Il partito è la loro
coscienza, la loro organizzazione.
Quando gli artiglieri delle corazzate
del Baltico cercano una via, preoccupati del pericolo che incombe sulla
rivoluzione, c’è un agitatore bolscevico che gliela mostra. Non ce n’è
un’altra, è evidente. I soldati nelle trincee vogliono esprimere la loro
volontà a porre fine al massacro, essi eleggono i candidati del partito
bolscevico nel loro comitato. Quando i contadini, stanchi dei continui
rinvii del partito socialista-rivoluzionario, si domandano se non sia
ormai tempo di agire da soli, li raggiunge la voce di Lenin: “contadino,
prendi la terra”. Quando gli operai si sentono circondati da tutte le
parti dal complotto controrivoluzionario, la “Pravda” consegna loro le
parole che essi essi sentivano e che sono anche quelle della necessità
rivoluzionaria.
Quando in una strada dei quartieri
poveri si formano crocchi di persone davanti a un manifesto bolscevico,
si sente esclamare: “Ma è così”. È così. Questa è la loro voce.
L’avanzata delle masse verso la rivoluzione si traduce così in un grande
fatto politico: i bolscevichi, piccola minoranza rivoluzionaria in
marzo, in settembre-ottobre diventano il partito di maggioranza. Diventa
impossibile. distinguere tra il partito e le masse. È una sola ondata.
Senza dubbio nella folla ci sono altri rivoluzionari sparsi,
socialisti-rivoluzionari di sinistra – più numerosi -.anarchici,
massimalisti, che vogliono anche la rivoluzione: un pugno d’uomini
trascinati dagli avvenimenti. Agitatori che si lasciano trascinare. In
diverse occasioni vedremo come la loro coscienza dei fatti sia confusa. I
bolscevichi, grazie alla loro concezione teorica della dinamica degli
avvenimenti, si identificano insieme con le masse lavoratrici e con la
necessità storica. “I comunisti non hanno interessi distinti da quelli
dell’insieme del proletariato” è scritto nel Manifesto di Marx ed
Engels. Questa frase scritta nel 1847 è ora più che mai giusta!
Dopo i fatti di luglio, il partito ha
passato un periodo di clandestinità e di persecuzioni, è appena
tollerato. Esso si organizza in colonna d’assalto. Ai suoi membri
domanda abnegazione, passione. e disciplina: la loro unica ricompensa
sarà la soddisfazione di servire il proletariato. I suoi iscritti
tuttavia aumentavano. In aprile poteva contare su 72 organizzazioni,
forti di 80 000 membri. Alla fine di luglio i suoi iscritti raggiungono i
200 000, riuniti in 162 organizzazioni.
Sulla via dell’insurrezione
Dopo la caduta dell’autocrazia, il
partito bolscevico si avvia al potere con una fermezza, una lucidità e
un’abilità davvero sorprendenti. Per convincersene basta leggere le Lettere da lontano,
scritte da Lenin poco prima della partenza da Zurigo,nel marzo 1917. Ma
come ogni definizione di un fatto storico, che voglia essere precisa,
anche questa non è esatta. Il partito si avvia al potere dal giorno in
cui il suo comitato centrale di emigrati quasi sconosciuti (Lenin,
Zinov’ev) affermava che “la guerra imperialista doveva essere
trasformata in guerra civile” (1914), o, andando ancora più indietro,
dal giorno in cui era nato per preparare la guerra civile (congresso di
Londra, 1903). Arrivato a Pietrogrado, .il 3 aprile 1917, Lenin, dopo
aver rettificato l’indirizzo politico dell’organo centrale del partito,
definisce subito gli obiettivi del proletariato e non si stanca di
insistere tra i militanti sulla necessità della conquista, attraverso la
persuasione, delle masse operaie. Nei primi giorni di luglio, quando
un’ondata di furore popolare investe per la prima volta il ministero di
Kerenskij, i bolscevichi si rifiutano di seguire il movimento. Questi
agitatori, non si lasciano trascinare. Essi non vogliono un’insurrezione
prematura; la provincia non è pronta, la situazione non è matura. Essi
frenano, resistono alla corrente, sfidano l’impopolarità. La coscienza
del proletariato, incarnata dal partito, entra per un momento in
conflitto con l’impazienza rivoluzionaria delle masse. E un conflitto
pericoloso! Se il nemico fosse stato più coraggioso, più intelligente
delle masse gli avrebbe portato una facile vittoria. “Ora ci fucileranno
tutti”, disse Lenin ai suoi amici il giorno dopo le. Giornate di
luglio. Lenin aveva ragione in teoria: era forse la sola possibilità per
la borghesia di far subire al proletariato un grande salasso preventivo
dal quale non si sarebbe ripreso per mesi, forse anni. Per fortuna, la
borghesia vedeva meno chiaro di Lenin nel suo proprio gioco. Le mancò il
coraggio (non era certo la voglia che faceva difetto). Dopo luglio i
suoi rappresentanti più energici tentano di riparare a questa debolezza.
Essi sognano un potere forte! Ci troviamo tra due dittature: il regime
di Kerenskij non è più che un interregno. Il fallito colpo di stato di
Kornilov (con Savinkov e Kerenskij dietro le quinte) porta una nuova
mobilitazione del proletariato. Da questo momento la situazione si
aggrava sempre più minacciando di diventare disperata; per il
proletariato, che è in condizioni sempre più precarie e sente che se non
vince ora, verrà duramente colpito; per i contadini, che assistono ai
continui rinvii della rivoluzione agraria loro promessa dai
socialisti-rivoluzionari al potere, in attesa di vederla svanire ad
opera di qualche Bonaparte della sconfitta; per l’esercito e la flotta,
costretti a continuare una guerra disperata al servizio di classi
nemiche; per la borghesia, sempre più compromessa dal caos dei
trasporti, dall’usura degli impianti industriali, dalla crisi della
produzione, dalla carestia, dall’impossibilità di placare le masse,
dalla mancanza d’autorità e dalla debolezza del suo meccanismo di
coercizione.
Dopo le giornate di luglio Lenin disse a
Bonc-Bruevic: “L’insurrezione è assolutamente inevitabile. Essa sarà
obbligatoria tra qualche tempo. Essa non può non essere”. A partire
dalla metà di settembre il partito incomincia a orientarsi risolutamente
verso la battaglia. La Conferenza democratica, che costituirà il
preparlamento, si riunisce dal 14 al 22 settembre. Lenin dal suo rifugio
clandestino, richiede con veemenza il ritiro della frazione bolscevica
dalla conferenza; un certo numero di compagni avrebbe voluto accettare
la parte di estrema opposizione parlamentare. Sostenuta dalla.
maggioranza del partito, l’opinione di Lenin ebbe la meglio. I
bolscevichi escono sbattendo la porta. Trockij legge alla conferenza la
loro dichiarazione: “L’infiammata parola di L. D. Trockij, che aveva da
poco apprezzato i piaceri della prigione sotto il regime della borghesia
e dei menscevichi, spezza come una clava tutte le trame ordite dai
diversi oratori del centro. Egli afferma, in termini chiari e precisi,
che non era possibile ritornare indietro; che gli operai non lo
pensavano nemmeno; che i contadini non vedevano che la via della nuova
rivoluzione. Si era fatto un silenzio di tomba; un fremito passò sulle
poltrone dove sedevano i capi della borghesia…. Gli applausi scoppiarono
nelle tribune e nella sala…” “Qui si affermò definitivamente la volontà
dell’insurrezione, e ci volle tutto il tatto, tutta l’autorità del
comitato centrale perché il desiderio generale, apertamente espresso,
non si traducesse subito in azione; era troppo presto e avrebbero potuto
ripetersi le giornate di luglio, ancora più sanguinose”.
Negli ultimi giorni di settembre o i
primi di ottobre il comitato centrale del partito bolscevico si riunisce
nell’appartamento del menscevico Suchanov; sono presenti Lenin,
Trockij, Stalin, Sverdlov, Jakolevka, Oppokov, Zinov’ev, Kamenev. Si
discute il principio stesso dell’insurrezione. Kamenev e Zinov’ev (Nogin
e Rykov che condividevano le loro idee non erano presenti a questa
riunione) pensavano che l’insurrezione avrebbe potuto forse vincere, ma
che sarebbe stato impossibile mantenere il potere a causa delle
difficoltà economiche e della crisi degli approvvigionamenti. La
maggioranza si pronunciò a favore dell’insurrezione, che fu persino
fissata per il giorno del 15 ottobre. A questo proposito vogliamo
insistere su un punto. Queste idee in uomini che avevano fatto loro
esperienza negli anni della lotta e che sarebbero passati in seguito
attraverso tutta la guerra civile senza cedere ad alcuna debolezza, non
denotavano certo una tendenza all’opportunismo e alla debolezza
menscevica. Esse denotavano piuttosto, anche in solidi rivoluzionari,
una certa sopravvalutazione delle forze dell’avversario, una certa
mancanza di fiducia in quelle del proletariato. Non si gioca con
l’insurrezione. È dovere del rivoluzionario prevedere ogni possibilità,
ogni eventualità, se essi temono la sconfitta della rivoluzione, la loro
preoccupazione non ha nulla in comune con la paura della rivoluzione
degli opportunisti che nulla temono più della vittoria del proletariato.
Rimane tuttavia il fatto che questi legittimi timori si fondano su una
valutazione errata dei fatti e costituiscono un pericolo enorme per la
politica generale del partito; essi possono farla deviare in modo
irreparabile. Il tempo lavora per la rivoluzione, ma passato un certo
momento, lavora contro di essa; il semplice rinvio di un’azione può
significare un’azione perduta. Il proletariato italiano ha pagato a caro
prezzo la sua indecisione del 1920; l’occasione che si è presentata al
proletariato tedesco nel 1923 potrà certamente presentarsi ancora; ma
quando? L’errore di coloro che rimandavano l’insurrezione era quindi un
errore grave, ed essi l’hanno più tardi riconosciuto. Il 10 ottobre il
comitato centrale del partito bolscevico (presenti Lenin, Zinov,’ev,
Kamenev, Stalin, Trockij, Sverdlov, Urickij, Dzerzinskij, Kollontaj,
Bubnov, Sokol’nikov, Lomov) decideva, con dieci voti contro due la
preparazione immediata dell’insurrezione. La preparazione era affidata a
un ufficio politico composto da Lenin, Trockij, Zinov’ev, Stalin,
Kamenev, Sokol’nikov e Bubnov.
I dirigenti proletari.
Un rapporto simile a quello che esiste
tra la massa operaia e il partito esiste in seno al partito tra
l’insieme dei militanti e i dirigenti.
Il partito è il sistema nervoso – e il
cervello – della classe operaia. I dirigenti e i quadri hanno nel
partito la funzione del cervello e del sistema nervoso nell’organismo.
Non si prenda alla lettera questo paragone: la differenziazione delle
funzioni in un organismo vivente e molto diversa da quella che avviene
nella società. Ma per quanto siano coscienti, i militanti del partito
non possono conoscere la situazione nel suo insieme. A loro mancano
inevitabilmente le informazioni, i collegamenti, l’istruzione, la
preparazione retorica e professionale del rivoluzionario – qualunque sia
il loro valore personale, – se non fanno parte dei quadri del partito
selezionati da anni di lotta e di lavoro, assecondati dalla
collaborazione di tutto il movimento, che dispongono dell’apparato del
partito e sono abituati al pensiero e all’azione collettiva. Come il
soldato nella trincea non vede che un’infima parte del campo di
battaglia e non può rendersi conto, quali che siano le sue capacità
dell’azione in cui si inserisce, come il meccanico non può dalla sua
macchina seguire il funzionamento. dell’intera officina, il militante,
lasciato a se stesso, non può orientarsi che sulle idee generali, sui
sentimenti, sulle conoscenze parziali. I veri dirigenti proletari sono
insieme le guide, i piloti, i capitani e i direttori d’azienda: si
tratta di una grande una grande azienda per la demolizione e
l’edificazione sociale. Essi hanno il dovere, attraverso l’analisi
scientifica, di scoprire le linee di forza degli avvenimenti, le loro
tendenze. Le possibilità che dischiudono, di comprendere quello che deve
fare il proletariato, non secondo la sua volontà o le aspirazioni del
momento, ma per la necessità storica; in una parola, di conoscere il
reale, di percepire il possibile, di concepire l’azione che sarà il
tramite tra il reale e il possibile; così facendo essi si pongono
costantemente dal solo punto di vista degli interessi superiori del
proletariato; il loro pensiero è quello del proletariato armato di una
disciplina scientifica. La coscienza di classe del proletariato
raggiunge così la sua più alta espressione nei dirigenti
dell’avanguardia organizzata della classe operaia. La loro personalità è
grande solo nella misura in cui è espressione delle masse. In questo
senso essa è gigantesca e anonima. Essi esprimono i sentimenti di tutti e
una virtù che è anche, per il proletariato, una necessità: terribile
impersonalità!
Certo. Ma il loro merito – il genio di
un Lenin – deriva dal fatto che lo sviluppo della coscienza di classe
non è un processo fatale; il sentimento generale può rimanere latente,
inespresso, in un momento determinato; le possibilità che emergono da
una situazione possono non essere colte; come può non essete compresa
l’azione necessaria alla salvezza o alla vittoria del proletariato. La
storia recente del proletariato dell’Europa occidentale è ricca di
esempi di azioni abortite per la debolezza della coscienza di classe.
Il dirigente proletario, uomo dei tempi
nuovi, può essere infine definito per antitesi con i capi delle vecchie
classi dirigenti e delle nuove classi possidenti. Questi ultimi sono gli
strumenti ciechi della necessità storica; il rivoluzionario è il suo
strumento cosciente.
Possiamo dire che la rivoluzione
d’ottobre ci offre l’esempio di un partito proletario ideale.
Relativamente poco numeroso, i suoi militanti sono a stretto contatto
delle masse; lunghi anni di lotta – una rivoluzione, la clandestinità,
l’esilio, la prigione, continue battaglie di idee – hanno formato quadri
ammirevoli e autentici dirigenti; 1’unità delle loro idee si è
cementata nell’azione comune. L’iniziativa collettiva e il rilievo di
forti personalità si armonizzano con una centralizzazione intelligente,
una disciplina volontaria, il rispetto delle guide riconosciute. In
questo partito, che dispone di un eccellente apparato organizzativo, non
trovi la minima deformazione burocratica; non riscontriamo alcun
feticismo della forma; non ci sono tradizioni malsane o equivoche; la
sua tradizione dominante è quella della guerra all’opportunismo. È un
partito rivoluzionario fino ai midollo. Tanto più significativo che alla
vigilia dell’azione si siano fatte sentire esitazioni profonde e tenaci
e che numerosi militanti, tra i più influenti, si siano pronunciati con
forza contro la presa del potere.
Lenin
Abbiamo detto altrove quale potenza
dell’unità sia stata la figura di Lenin, uomo costruito d’un blocco
solo, interamente votato, in tutti i momenti della sua vita, a un’unica
opera. Egli era tutt’uno col suo partito e, attraverso il partito, col
proletariato; egli fu tutt’uno, nelle ore decisive, con il popolo
lavoratore della Russia intera e, al di là delle frontiere insanguinate,
con i proletari e gli oppressi di tutti i paesi. Per questo egli
appariva, nell’ottobre, come il capo per eccellenza, il capo unico della
rivoluzione proletaria. Conosciamo lo stato d’animo delle masse nel
settembre-ottobre. Alla metà di settembre, con un urgente messaggio,
Lenin scongiura il comitato centrale di prendere il potere. Segue poco
dopo un’altra lettera sul Marxismo e l’insurrezione. Il potere
non è ancora conquistato che Lenin, ben sapendo che spesso è più
difficile mantenere il potere che prenderlo e che l’essenziale è
rivelare la loro forza ai protagonisti della rivoluzione, scrive un
opuscolo intitolato I bolscevichi conserveranno il potere statale? (fine di settembre). Il 7 ottobre, un nuovo articolo, un nuovo appello: La crisi è matura.
A partire da questo momento egli è pervaso da una sacra impazienza. Si
succedono le sue lettere al comitato centrale, al partito, ai militanti,
con un tono ora persuasivo, ora autoritario , incalzante, molesto.
Sopra la testa del comitato centrale egli si indirizza ai comitati di
Mosca e di Pietrogrado: Temporeggiare è un delitto! (inizio di ottobre). L’8 ottobre compaiono i suoi Consigli di uno spettatore, dedicati all’insurrezione. Il 16- 17 ottobre, una lunga lettera memorabile, Ai compagni,
respinge energicamente le obiezioni degli avversari dell’insurrezione.
Le ultime resistenze sono vinte. Lenin, il capo, formatosi in venti tre
anni di lotta (dal 1895), agendo all’unisono con i contadini, gli
operai, i soldati, i marinai, il grande popolo del lavoro, ha segnato
l’ora e ha dato il segnale dell’azione decisiva. Ma dovette ricorrere a
tutta la sua energia – e a quella di qualcun altro – per superare delle
esitazioni che rischiavano di diventare fatali. I suoi scritti di
quest’epoca sono riuniti in un volume dal titolo Sulla via dell’insurrezione.
Essi formano un libro vivo, di cui è ancora difficile valutare tutta
l’importanza. Modello di dialettica rivoluzionaria , trattato di teoria e
di pratica insurrezionale, trattato sull’arte di vincere nella guerra
di classe, pensiamo che esso segni una data, come il Manifesto
comunista, al quale, sulla soglia dell’era del proletariato, apporta un
complemento necessario. La dottrina di Lenin sull’insurrezione si può
riassumere in poche righe:
“Per riuscire l’insurrezione deve
appoggiarsi non su di un complotto, non su di un partito, ma sulla
classe progressiva. Questo in primo luogo. L’insurrezione deve
appoggiarsi sull’ondata rivoluzionaria del popolo. Questo in secondo
luogo. L’insurrezione deve appoggiarsi su quel punto critico
nella storia del processo rivoluzionario che è il momento in cui
l’attività della maggioranza del popolo è massima e più forti sono le
esitazioni nelle file dei nemici e nelle file degli amici deboli,
equivoci e indecisi della rivoluzione. Questo in terzo luogo. Ecco le
tre condizioni che, nell’impostazione del problema dell’insurrezione,
distinguono il marxismo dal blanquismo”. (Il marxismo e l’insurrezione).
E nell’insegnamento di Marx: “Non giocare mai con l’insurrezione ma una volta cominciata occorre andare fino in fondo”.
Perché Lenin, in questo momento, accanto
a tanti altri uomini di valore. che come lui vedono chiaramente la via
da seguire viene riconosciuto come il capo unico? Numerosi militanti
responsabili di San Pietroburgo e di Mosca – per non parlare che delle
capitali e del gruppo dirigente del partito, con un’indebita restrizione
si preparavano coscientemente all’insurrezione. Trockij, presidente del
Soviet, dal momento del suo arrivo in Russia non ha mai avuto la minima
esitazione sulla via da seguire. La sua identità di vedute con Lenin,
salvo i particolari dell’esecuzione, è totale. Al comitato centrale del
partito la grande maggioranza vota a favore dell’azione, Ma nessuno tra
tutti questi rivoluzionari gode di un ascendente paragonabile a quello
di Lenin. La maggior parte di loro, suoi discepoli, lo riconoscono come
il maestro. Trockij, le cui qualità di organizzatore della vittoria si
dimostrano ora sorprendenti, è stato per lungo tempo isolato nella
socialdemocrazia russa, ad eguale distanza da menscevichi e bolscevichi.
Numerosi bolscevichi si ricordano di lui come di un avversario. Entrato
nel comitato centrale alla fine di luglio, pochi giorni dopo la sua
adesione al partito, è considerato un grande nuovo venuto. È il partito
che fa i capi, senza partito non ci sono capi: questa è la vera realtà.
Lenin diventa il capo della rivoluzione perché è il creatore del partito
del proletariato.
La guardia rossa
Nelle due capitali gli avvenimenti si succedono, in modo diverso, ma con notevole parallelismo.
L’iniziativa della formazione della
guardia rossa è degli operai delle fabbriche di Pietrogrado che la
costituirono d’istinto dopo la caduta dello zarismo. Essi cominciarono
ad armarsi procedendo al disarmo del vecchio regime. In aprile, due
militanti bolscevichi, Sljapnikov ed Eremeev, cercarono di dare
sistematicità all’organizzazione spontanea delle guardie rosse. Le prime
formazioni regolari, se possiamo definirle tali, di questa milizia
operaia si costituirono nei quartieri operai, soprattutto in quello di
Vyborg. Menscevichi e socialisti-rivoluzionari tentarono all’inizio di
opporsi al movimento. In giugno, in una seduta a porte chiuse del
soviet, dove essi avevano ancora la maggioranza, il socialdemocratico
Cereteli chiede il disarmo degli operai. È troppo tardi. Sono stati
creati gli stati maggiori di zona(raion); uno stato maggiore generale
assicurava il loro coordinamento. Formate per officina sulla base del
volontariato collettivo, – e non individuale: era l’officina che
decideva di formare un contingente in cui si arruolava compatta, – le
prime guardie rosse si assunsero il compito della protezione delle
grandi manifestazioni operaie. All’epoca dei fatti di luglio le guardie
del rione di Vyborg tennero facilmente testa alle truppe di Kerenskij.
Pietrogrado contava in questo momento 10 000 guardie rosse. Il colpo di
stato di Kornilov (25- 30 settembre), la marcia di una divisione cosacca
sulla capitale, il pericolo della controrivoluzione, costrinsero il
soviet dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari ad armare
frettolosamente gli operai. Non senza esitazioni: quando gli operai
delle fabbriche di munizioni di Schlùsselburg inviarono a Pietrogrado un
carico di granate il soviet si rifiutò di ritirarle: ci pensò la
guardia rossa. L’iniziativa operaia provvedeva a tutto nonostante la
cattiva volontà dei socialisti della pace sociale. La mobilitazione del
proletariato contro Kornilov dimostra che una controrivoluzione mancata
può essere altrettanto pericolosa per la borghesia quanto
un’insurrezione mancata per il proletariato.
Nel settembre, in 79 fabbriche ed
officine di Pietrogrado gli operai venivano addestrati all’uso delle
armi. In diverse officine tutti gli operai portavano le armi.
L’organizzazione militare del partito bolscevico non era in grado di
fornire un numero sufficiente di istruttori a queste masse. Alla vigilia
della rivoluzione d’ottobre gli effettivi della guardia rossa
raggiungevano i 20 000 uomini, riuniti in battaglioni di 400 o 600
uomini, ciascuno dei quali era diviso in tre compagnie, una sezione di
mitraglieri, una sezione di collegamento, una sezione di portaferiti;
qualche volta potevano disporre di un’autoblinda. Alla testa dei
battaglioni e delle compagnie si trovavano dei sottufficiali (operai).
Essi prestavano servizio a turno. I due terzi degli operai lavoravano in
fabbrica; il terzo rimanente, era “di guardia”, e il tempo di servizio
era pagato come tempo di lavoro. L’ammissione alla guardia rossa è
condizionata dai suoi statuti alla presentazione da parte di un partito
socialista, di un comitato d’officina o di un sindacato. Tre assenze non
giustificate sono motivo di esclusione. Le infrazioni alla disciplina
sono esaminate da una giuria di compagni. L’impiego delle armi senza
autorizzazione è considerato una colpa grave. Gli ordini devono essere
obbediti senza discussione. Le guardie rosse dispongono di tessere
numerate. I quadri devono essere eletti; in realtà, erano spesso
designati dai comitati d’officina o da altre organizzazioni operaie, e
la nomina dei comandanti doveva essere ratificata dal soviet di zona. I
comandanti, se non avevano un’istruzione militare, erano tenuti a
frequentare dei corsi speciali.
È bene ricordare, a proposito di questa
grande iniziativa del proletariato di Pietrogrado, che essa non faceva
che seguire i desideri e le istruzioni esplicite – ma segrete – di
Lenin. In una delle sue Lettere da lontano, scritta da Zurigo l’11-24
marzo 1917, e che solo più tardi sarebbe stata pubblicata come documento
storico, Lenin, parlando della “milizia proletari”, scongiurava gli
operai di “non lasciare ritornare la polizia!ii non abbandonare le
istituzioni locali!”, e di costituire senza perdere tempo una milizia
che comprendesse anche le donne e i giovani. “Occorrono, – egli
terminava – dei prodigi di organizzazione”.
A Mosca, la formazione della guardia
rossa fu assai più faticosa. Le autorità – alla cui testa si trovavano
menscevichi e socialisti rivoluzionari – erano quasi riuscite a
disarmare gli operai e una parte della guarnigione. Bisognò fabbricare
di nascosto delle granate, procurarsi degli esplosivi in provincia.
L’organizzazione del comando e dei collegamenti subì deplorevoli
ritardi.
Queste insufficienze e questi ritardi,
al momento dell’insurrezione, costarono al proletariato di Mosca una
sanguinosa battaglia di strada di sei giorni.
L’organizzazione militare del partito
comprendeva oltre centomila soldati e un certo numero di ufficiali. Essa
si preparava a costituire ovunque dei comitati militari rivoluzionari,
organi dirigenti dell’insurrezione.
Vigilia d’armi
A Pietrogrado il conflitto tra i due
poteri – il governo provvisorio presieduto da Kerenskij, e il soviet –
entra in una fase acuta a partire dal 16 ottobre, dal momento della
creazione presso il soviet di un comitato militare rivoluzionario
composto da Antonov-Ovseenko, Podvojskii e Cudnovskij. La guarnigione di
Pietrogrado era conquistata al bolscevismo. Il governo, col pretesto
dell’eventualità di una offensiva tedesca, tentò di allontanare dalla
capitale i reggimenti più rivoluzionari. Per mezzo dei suoi servizi di
collegamento, d’informazione e di armamento il comitato militare
rivoluzionario cominciò a designare dei commissari presso tutte le unità
di truppa; dall’altra parte, anche la borghesia si armava; la nomina di
commissari presso gli arsenali le impediva di continuare; i delegati
del comitato militare rivoluzionario furono accolti bene dai soldati,
che sapevano che il comitato era deciso a impedire il loro invio al
fronte. In effetti il comitato rifiutò di controfirmare l’ordine di
partenza dei reggimenti rossi, avendo l’accortezza di giustificarlo con
il desiderio di informarsi prima sulle forze della difesa… Il comitato
militare rivoluzionario assunse le funzioni di quartier generale della
guardia rossa. Infine, esso ordinò alle truppe di non obbedire ad alcun
ordine che provenisse dal comando della piazza. Da questo momento
l’insurrezione era allo stato latente. Due poteri si fronteggiavano e
due autorità militari di cui una – quella insurrezionale – annullava
deliberatamente gli ordini dell’altra.
Il II congresso panrusso dei soviet
doveva riunirsi a Pietrogrado il 15 ottobre. I menscevichi riuscirono ad
aggiornarne la riunione fino al 25 ottobre- 7 novembre, concedendo così
al governo provvisorio della borghesia una dilazione di dieci giorni.
Nessuno dubitava che il congresso che avrebbe avuto una maggioranza
bolscevica, si sarebbe pronunciato per la presa del potere. “Voi fissate
la data della rivoluzione!”, dicevano i menscevichi ai bolscevichi.
Perché la decisione – ormai certa – non rimanesse un fatto platonico,
era necessario appoggiarla con la forza delle armi. Sulla data
dell’insurrezione vennero espresse due opinioni diverse: Trockij voleva
legarla al congresso dei soviet, pensando che una iniziativa
insurrezionale del partito avrebbe avuto minori possibilità di
trascinare le masse; Lenin riteneva “criminale” aspettare fino al
congresso dei soviet, temendo che il governo provvisorio prevenisse
l’insurrezione con una vigorosa offensiva. I fatti non giustificarono
questo timore, tuttavia legittimo; il nemico si rivelò assai più debole
di quanto non si pensasse. Ai nostri occhi si scontravano due concezioni
altrettanto giuste ma poste su due piani differenti; la prima, di
carattere strategico si ispirava alla necessità di legare l’azione del
partito alle rivendicazioni più elementari e comprensibili delle masse
(“tutto il potere ai soviet”), che è una delle condizioni del successo;
la seconda, di carattere politico generale, tendeva a eliminare ogni
illusione sulla possibilità di costituire un vero potere proletario
prima dell’insurrezione. Infatti, una volta ammessa questa possibilità
teorica, perché non si sarebbe potuto dire senza insurrezione? Era una
china pericolosa. Dal 1906 Lenin denunciava la tendenza a “velare o
nascondere la parola d’ordine dell’insurrezione dietro a quella
dell’organizzazione del potere rivoluzionario”. La sua dottrina potrebbe
essere così definita: vaincre d’abord, prima vincere.
Lenin voleva che l’insurrezione
precedesse il congresso; quest’ultimo, messo davanti al fatto compiuto,
non avrebbe fatto che sanzionarlo. Precisò queste idee in una conferenza
personale con gli organizzatori dell’azione. Egli si interessava con
passione a tutti i particolari dell’insurrezione, deciso a evitare a
tutti i costi che l’offensiva venisse rinviata. Nevskij e Podvojskij
avevano un bel dirgli che una preparazione di qualche giorno in più non
avrebbe fatto che aumentare le possibilità di successo.. Egli rispondeva
invariabilmente: “Anche il nemico ne approfitterebbe”. Antonov-Ovseenko
ci ha dato la ricostruzione di un colloquio con Lenin, due giorni prima
della battaglia, in una casa del quartiere operaio di Vyborg. Lenin,
ricercato dalla polizia di Kerenskij, Lenin che in caso di cattura
sarebbe stato probabilmente ucciso da qualche pallottola vagante, era
irriconoscibile. “Ci trovammo in presenza di un piccolo vecchio dai
capelli grigi, con il pince-nez, ma con un buon portamento e un aspetto
piuttosto bonario; lo si sarebbe detto un musicista, o un libraio
antiquario. Egli si levò la parrucca e riconoscendo il suo sguardo
ardente, come al solito pieno di humour: “Cosa c’è di nuovo?” Era pieno
di fiducia. Si informò sulla possibilità di chiamare la flotta a
Pietrogrado. All’obiezione che ciò avrebbe significato sguarnire il
fronte del mare, egli replicò perentoriamente: ” Ebbene ! I marinai
devono ben comprendere che la rivoluzione è più minacciata a Pietrogrado
che sul Baltico”.
La fortezza di Pietro e Paolo, situata
nel centro della città su un isolotto della Neva e ben munita di
cannoni, un grosso motivo di preoccupazione per il comitato militare
rivoluzionario. Le sue artiglierie minacciavano il Palazzo d’Inverno. Il
suo arsenale conteneva 10000 fucili. La sua guarnigione sembrava fedele
al governo provvisorio. Trockij propose di prendere la cittadella
dall’interno attraverso un comizio. Ci riuscì (insieme a Lasevic).
Il 22 ottobre fu la grande giornata del
soviet di Pietrogrado; fu il grandioso plebiscito della rivoluzione.
Come spesso capita quando si compiono avvenimenti di immensa grandezza,
la causa immediata pare di secondaria importanza: perché spesso non c’è
nella catena delle cause che l’ultima debole maglia. Il comitato
esecutivo centrale dei soviet, ancora dominato dai socialisti della pace
sociale, aveva in sue mani la cassa del soviet di Pietrogrado.
Quest’ultimo aveva bisogno di un giornale.
Si decise di organizzare una serie di
grandi comizi al fine di raccogliere i fondi necessari alla creazione di
un organo di stampa. La stampa borghese, terrorizzata da questa
mobilitazione delle masse, gridò alla sommossa. Kerenskij tenne un
linguaggio che parve energico, ma che non era che quello di un
fanfarone. “Tutta la Russia è con noi! Non abbiamo nulla da temere”.
Egli minacciava “di liquidare in modo decisivo e completo gli elementi, i
gruppi, i partiti che osano attentare alla libertà del popolo russo, e
rischiano, nello stesso momento, di aprire il fronte ai tedeschi”. Un
Galiffet! Un Cavaignac! Vane minacce. Era troppo tardi. La giornata del
22 vide una formidabile mobilitazione delle masse. Tutte le sale
straboccarono. Alla Casa del Popolo (Narodnyj Dom) migliaia di persone
riempirono i corridoi, le gallerie, le sale; nella grande hall grappoli
umani erano appollaiati, frementi, sull’armatura metallica
dell’edificio… John Reed era tra essi; le sue note su questa assemblea,
nella quale la voce di Trockij scatenò l’entusiasmo della folla,
meritano di essere citate:
“Intorno a me la gente sembrava in
estasi. Mi sembrava che la folla fosse sul punto di intonare,
improvvisamente, senza intesa né segnale, un inno religioso. Trockij
lesse una risoluzione il cui senso generale era che si doveva versate
fino l’ultima goccia di sangue per la causa degli operai e dei
contadini… ‘Chi è favorevole?’ La folla innumerevole alzò le mani come
un sol uomo. Vedevo queste mani alzate e gli occhi ardenti degli uomini,
delle donne, degli adolescenti, degli operai, dei soldati, dei
mugiki…Trockij continuava a parlare. Le mani, innumerevoli, rimanevano
alzate.
Trockij scandiva le parole: “Che questo
voto sia il vostro giuramento! Voi giurate di consacrare tutte le vostre
forze, di non indietreggiare davanti a qualunque sacrificio per
sostenere il soviet che si accinge a portare a termine la vittoria della
rivoluzione e a darvi la vostra parte”. Le mani, innumerevoli,
rimanevano alzate. La folla approvava. La folla prestava giuramento.. E
la stessa cosa avveniva in tutta Pietrogrado. Ovunque si facevano gli
ultimi preparativi; si pronunciavano ovunque gli ultimi giuramenti.
Migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia di uomini. Era già
l’insurrezione”.
Kronstadt e la flotta
Le forze rivoluzionarie di Kronstadt, il
mattino del 25, ricevettero l’ordine di prepararsi a prendere la difesa
del congresso dei soviet (tutta l’offensiva, infatti, si svolgeva con
una pazienza formale di azione difensiva). Fermiamoci un istante sui
preparativi a Kronstadt, sui quali uno dei protagonisti, I. Flerovskij,
ci ha lasciato un eccellente racconto. L’elemento razionale, coordinato,
la perfetta organizzazione dell’insurrezione, concepita come
un’operazione militare condotta secondo le regole dell’arte della
guerra, appare con la massima evidenza, in stridente contrasto con i
movimenti spontanei e mal organizzati così frequenti nella storia del
proletariato.
“ La preparazione per l’intervento a
Pietrogrado si fece esclusivamente di notte… Il circolo navale era
straboccante di soldati, di marinai e di operai, tutti in tenuta da
combattimento, pronti… Lo stato maggiore rivoluzionario stabiliva con
precisione il piano delle operazioni, designava le unità e gli
equipaggi, faceva le assegnazioni di viveri e di munizioni, procedeva
alla nomina dei comandanti. La notte trascorse in un intenso lavoro. I
seguenti bastimenti furono designati per partecipare all’operazione: il
lancia torpediniere Amore,la vecchia corazzata Alba detta Libertà (ex
Alessandro III), il monitore Avvoltoio. L’Amore e l’Avvoltoio dovevano
portare a Pietrogrado un carico di truppe. La corazzata doveva disporsi
all’ingresso del canale marittimo per tenere sotto i suoi cannoni la
ferrovia costiera. Un’attività intensa, ma silenziosa, proseguiva per le
strade. I distaccamenti dell’esercito e gli equipaggi della flotta si
dirigevano verso il porto. Alla luce delle torce non si potevano
distinguere che i visi seri, concentrati, delle prime file. Non si
udivano né risa, né voci. Il silenzio era solo interrotto dal martellare
dei passi degli uomini in marcia, dai brevi comandi, dal passaggio dei
camion rombanti. Nel porto i battelli venivano caricati in fretta. I
distaccamenti, allineati sul molo, attendevano pazientemente il momento
dell’imbarco.
“È mai possibile – pensavo – che questi
siano gli ultimi minuti che precedono la più grande delle rivoluzioni?
Tutto avveniva con una tale semplicità e precisione che si sarebbe
potuto pensate alla vigilia di una qualunque operazione militare.
Assomigliava così poco alle scene di rivoluzione che conosciamo dalla
storia..”. Questa rivoluzione, – mi diceva il mio compagno di strada –
si farà con le buone maniere”.
Questa rivoluzione si faceva con le
buone maniere proletarie: con l’organizzazione. Per questo essa ha vinto
– a Pietrogrado – in modo così facile e completo. Traiamo da queste
memorie un’altra scena significativa. A bordo di un vascello in marcia
verso l’insurrezione, il delegato dello stato maggiore rivoluzionario si
presenta alla mensa degli ufficiali.
“Qui lo stato d’animo è diverso. Si è
inquieti, sospettosi, disorientati. Al mio ingresso, al mio saluto, gli
ufficiali si alzano in piedi. Essi ascoltano in piedi le mie brevi
spiegazioni e l’ordine: “Andiamo a rovesciare il governo provvisorio, le
armi alla mano. Il potere passa ai soviet. Noi non contiamo sulla
vostra simpatia; non ne abbiamo alcun bisogno. Ma esigiamo che restiate
ai vostri posti, adempiendo con puntualità ai vostri doveri e obbedendo
ai nostri ordini. Vi risparmieremo le prove superflue. È tutto”.
“Inteso!”, risponde il capitano. Gli ufficiali si recarono all’istante
ai loro posti. Il capitano salì al posto di comando”.
La flotta giunge numerosa alla riscossa
del proletariato e della guarnigione. Gli incrociatori Aurora, Oleg,
Zabiiaka, Samson, due torpediniere, e ancora altri bastimenti risalgono
la Neva.
La presa del palazzo d’Inverno
Tre compagni, Podvojskij,
Antonov-Ovseenko e Lasevic, erano stati incaricati di organizzare la
presa del Palazzo d’Inverno. Assieme a loro Cudnovskij, grande militante
dei primi giorni, che sarebbe presto morto in Ucraina, L’antica
residenza imperiale è situata nel centro della città, sulle rive della
Neva; sulla riva opposta di fronte, a seicento metri, è la fortezza di
Pietro e Paolo. A mezzogiorno, la facciata del palazzo guarda il
selciato di una grande piazza su cui si erge la colonna di Alessandro I.
Luogo storico. Al fondo, in semicerchio, i vasti edifici regolari del
vecchio grande stato maggiore e del vecchio ministero degli Affari
esteri. Su questa piazza, nel 1879, crepitarono i colpi dello studente
Solov’èv, davanti al quale si vide fuggire correndo a zig-zag, pallido,
la testa bassa, l’autocrate Alessandro Il. Nel 1881 la dinamite del
falegname Stepan Chalturin esplodeva sotto gli appartamenti imperiali
danneggiando il cupo edificio. Sotto le sue finestre il 22 gennaio 1905,
la truppa apriva il fuoco su una folla di operai che portavano una
petizione allo zar, il piccolo padre del popolo, recando li sacre icone e
cantando inni religiosi, Ci furono qui una cinquantina di morti e più
di un migliaio di vittime in totale; e l’autocrazia fu colpita dalle
proprie palle,..
Il 25 ottobre, fin dalla mattina, i
reggimenti conquistati dai bolscevichi incominciarono a circondare il
Palazzo d’Inverno, sede del ministero Kerenskij. L’assalto doveva essere
dato alle 9 della sera, nonostante l’impazienza di Lenin, che esigeva
che si finisse più presto. Mentre il cerchio di ferro si stringeva
lentamente intorno al palazzo, il congresso dei soviet si riuniva allo
Smol’nyj, un vecchio istituto delle figlie della nobiltà. Ancora
clandestino, poche ore prima di incarnare la dittatura del proletariato,
ancora truccato da vecchio, Lenin cammin ava avanti e indietro, a passi
nervosi, per una cameretta dell’istituto. A tutti quelli che arrivavano
domandava: “E il palazzo? Non è ancora preso?”. Era sempre più furente
contro gli incerti, i temporeggiatori, gli indecisi. Minacciava
Podvojskij: “Bisogna farli fucilare, farli fucilare!”.
I soldati, accampati intorno ai
bracieri, condividevano la stessa impazienza. Li si udiva mormorare che
“anche i bolscevichi si mettevano a fare della diplomazia”. Ancora una
volta il sentimento di Lenin s’identificava, perfino nei particolari,
con quello della massa. Podvojskij, sicuro di aver in pugno la vittoria,
rimandava l’assalto. L’agitazione demoralizzava un nemico condannato.
Ogni goccia di sangue rivoluzionario, che si fosse potuta risparmiare,
era preziosa.
Una prima intimazione di resa è rivolta
ai ministri alle 6 del pomeriggio; alle 8 un secondo ultimatum; un
bolscevico inviato per parlamentare arringa i difensori del palazzo; i
soldati di un battaglione scelto si arrendono agli insorti; un
formidabile urrah li accoglie sulla piazza trasformata in campo di
battaglia. Il battaglione femminile si arrende qualche minuto dopo. I
ministri, terrorizzati, in una vasta sala senza luci, scortati da un
pugno di giovani allievi, esitano ancora a capitolare. Kerenskij li ha
abbandonati, promettendo un pronto ritorno alla testa di truppe fedeli.
Essi si aspettano di essere linciati da una folla furibonda. Il cannone
dell’Aurora – che spara a salve! – finisce di demoralizzare i difensori.
L’assalto dei rossi non incontra che una debole resistenza. Delle
granate scoppiano sui grandi scaloni di marmo, dei corpo a corpo si
formano nei corridoi. Nella penombra di una vasta anticamera una fila di
allievi lividi incrociano le baionette davanti a una porta decorata. È
l’ultimo bastione dell’ultimo governo borghese della Russia.
An’tonov-Ovseenko, Cudnovskii, Podvojskij spostano queste baionette
inerti. Un giovane sussurra loro: “Sono con voi”. Il governo provvisorio
è qui: tredici signori tremanti, lamentosi, tredici visi sconvolti,
nascosti nell’ombra. Come escono dal palazzo, scortati dalla guardia
rossa da tutte le parti si levano grida di: “a morte”. Soldati e marinai
vorrebbero massacrarli. La guardia operaia li trattiene, “Non macchiate
con degli eccessi la vittoria proletaria”.
I ministri di Kerenskij vanno a
raggiungere nella fortezza di Pietro e Paolo, la vecchia fortezza dove
erano passati tutti gli eroi della libertà russa, i ministri dell’ultimo
zar. È finito.
Nei quartieri vicini la circolazione era proseguita normale. Nei corsi dei curiosi guardavano tranquilli…
Un particolare sull’organizzazione
dell’offensiva. Perché un successo momentaneo del nemico non potesse
interrompere il loro lavoro, i capi militari dell’insurrezione avevano
predisposto due quartieri generali di riserva.
Il congresso dei soviet
Mentre i rossi circondano il Palazzo
d’Inverno, si riunisce il soviet di Pietrogrado. Lenin esce dall’ombra.
Lenin e Trockij annunciano la presa del potere. I soviet offrono a tutti
i paesi una pace giusta; i trattati segreti saranno pubblicati. La
prima parola di Lenin sottolinea l’importanza dell’unione degli operai e
dei contadini, non ancora suggellata:
“All’interno della Russia, l’immensa
maggioranza dei contadini ha detto: Abbiamo giocato troppo con i
capitalisti, noi marciamo con gli operai! un decreto unico, che abolisca
la proprietà fondiaria, ci procurerà la fiducia dei contadini. essi
comprenderanno che la loro unica salvezza è nell’unione con gli operai.
noi istituiremo il controllo operaio sulla produzione…”.
Il congresso panrusso dei soviet si apre
solo alla sera nella grande sala delle feste dello Smol’nyj, tutta
bianca, che enormi lampadari inondano di luce. 562 delegati sono
presenti: 382 socialdemocratici bolscevichi, 70 socialisti-rivoluzionari
di sinistra, 36 socialisti-rivoluzionari di centro, 16
socialisti-rivoluzionari di destra, 3 socialisti-rivoluzionari
nazionali, 15 socialdemocratici internazionalisti uniti, 21
socialdemocratici menscevichi partigiani della difesa nazionale, 7
delegati socialdemocratici di organizzazioni nazionali, 5 anarchici.
Sala affollatissima, febbrile. Il menscevico Dan apre il congresso a
nome del vecchio esecutivo panrusso, mentre si elegge la presidenza si
sente tuonare il cannone sulla Neva. La resistenza al Palazzo d’Inverno
sta per terminare. Kamenev “felice e con l’aria della festa” sostituisce
Dan alla presidenza. Propone un ordine del giorno di tre punti: “1)
organizzazione del potere; 2) la guerra e la pace; 3) assemblea
costituente”. L’inizio della seduta è monopolizzata dagli interventi
dell’opposizione menscevica e socialista-rivoluzionaria. A nome dei
primi, Martov, il leader più probo e dotato, Martov, la cui estrema
debolezza fisica sembrava manifestare, nonostante il suo grande coraggio
personale,la debolezza della sua causa, “Martov, con il suo solito
atteggiamento, con la mano sul fianco, una mano tremante, esangue, lui
stesso contorto e bizzarro, dondolando la sua testa arruffata, chiede
che si ricerchi una soluzione pacifica al conflitto…”. E’ proprio il
momento! Mstislavskij prende la parola a nome dei
socialisti-rivoluzionari di sinistra. Il suo partito disprezzava il
governo provvisorio, era favorevole alla presa del potere da parte dei
soviet, ma aveva rifiutato di prendere parte al colpo di forza. Il suo
discorso era tutto una sfumatura. Tutto il potere ai soviet, certo!
Tanto più che era un fatto compiuto. Ma che si arrestino subito le
operazioni militari. Come si può deliberare con il rombo del cannone? A
questo replicò vivamente Trockij: “Chi è che s’impressiona per il rombo
del cannone? Al contrario, si può lavorare meglio!”
Il cannone fa tintinnare i vetri. Ai
menscevichi e ai socialisti-rivoluzionari di destra che denunciano “il
crimine che si sta compiendo contro la patria e la rivoluzione” risponde
un marinaio dell’Aurora, che sale alla tribuna.
“Figura bronzea – riferisce
Mstislavskij, – gesto corto che percuote senza esitare, parola che fende
l’aria come un coltello, con la destra tesa, così appariva quest’uomo.
Era appena salito alla tribuna, elastico ed energico, con il petto
villoso incorniciato da un colletto che ondulava graziosamente intorno
alla sua testa ricciuta, che tutta la sala scoppiò in applausi
clamorosi… “Il Palazzo d’Inverno è finito, – egli dice – L’Aurora
gli spara sopra, quasi a bruciapelo”. “Oh!”, gemette, ai suoi piedi, il
menscevico Abramovic, stravolto, torcendosi le mani. “Oh!”. E
rispondendo a questo lamento, con un gesto magnanimo, ma con
un’inimitabile disinvoltura, L’uomo dell’Aurora lo
tranquillizzò subito sussurrando forte e lasciando trapelare un riso
interiore: “Si spara a salve. Ce n’è più che a sufficienza per i
ministri e le donne del battaglione scelto.”. Tumulto. I menscevichi
della difesa nazionale e i socialisti-rivoluzionari di destra, una
sessantina di delegati, se ne vanno, per “morire insieme al governo
provvisorio”.
Non andranno lontano. Il loro esile corteo, trovando le strade sbarrate dalle guardie rosse, si disperse da solo…
A tarda notte, i socialisti-rivoluzionari di sinistra si decisero finalmente a seguire i bolscevichi e a rimanere al congresso.
Lenin non salì alla tribuna che alla
seduta del giorno dopo, il 26, nella quale furono votati i grandi
decreti sulla terra, la pace, il controllo operaio sulla produzione.
Egli apparve, accolto da un immensa acclamazione. Ne attese la fine,
guardando fisso, con calma, questa folla vittoriosa. Poi disse
semplicemente, senza un gesto, con le mani appoggiate al pulpito, con le
spalle leggermente inclinate verso l’uditorio: “Noi cominciamo a
costruire la società socialista”.
Tratto da “L’anno primo della rivoluzione russa” – Einaudi 1991. Pagg 37-56