CONTROPIANO

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Giornale comunista

giovedì 29 dicembre 2016

Il regime del salario


Prefazione Il regime del salario 
Pubblicato Il regime del salario, l’ebook del collettivo Lavoro insubordinato (casa editrice Asterios di Trieste) che raccoglie tutti gli interventi pubblicati sul Jobs Act e le trasformazioni che esso produrrà sull’organizzazione del lavoro in Italia. Pubblichiamo oggi la prefazione di Ferruccio Gambino.
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Questa premessa intende rilevare alcuni effetti della politica del lavoro nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in particolare in Italia, in considerazione del processo di mercificazione del lavoro vivo in corso. Seguono poi undici articoli che esaminano in modo circostanziato aspetti cruciali del regime del salario e delle sue tendenze in Italia. Questa premessa vuole limitarsi a offrire qualche coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia orientale. Dunque, nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che sono motivate a non cedere terreno.
Le politiche adottate negli scorsi 35 anni nell’UE hanno mirato e mirano a deteriorare i salari e di conseguenza le condizioni di lavoro. L’onda lunga della casualizzazione del lavoro salariato si era sollevata già alla fine degli anni 1970 negli Stati Uniti con la politica antinflazionistica di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (agosto 1979) e il conseguente aumento della disoccupazione oltre il 10% nel 1981. L’onda è ben lontana dal placarsi. Di solito, l’abbassamento dei livelli di occupazione prepara l’attacco alla busta-paga. Nell’Eurozona la crisi dell’occupazione ha comportato una continua pressione sulla massa salariale che poi si è aggravata con il rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro. Nell’ultimo quadriennio (2008-2011) degli otto anni di direzione di Jean-Claude Trichet alla Banca centrale europea (BCE) il numero dei disoccupati è schizzato nell’Eurozona, fino a raggiungere la cifra da primato di 19 milioni nel 2012 (più dell’11% delle forze di lavoro), poco dopo l’uscita di scena del banchiere francese; né si vedono segni di significativa flessione del fenomeno nello scorso triennio.
Molti commentatori sono del parere che la BCE sia stata mal consigliata dalla Bundesbank e che abbia commesso «errori» madornali di gestione. A loro dire, il principale errore sarebbe consistito nel rafforzamento dell’euro nei confronti del dollaro a causa di una cieca adesione della Bundesbank al dogma della lotta all’inflazione. Tuttavia può darsi che il dogma della lotta all’inflazione abbia un peso non superiore al doveroso aiuto congiunturale offerto dall’UE al sofferente capitale statunitense. Una delle forme più importanti di tale aiuto è consistita nel rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro e nella conseguente grave crisi delle esportazioni di alcuni paesi dell’Eurozona, in particolare di quelli dell’Europa meridionale. Qui basta rammentare che nella fase di massima onda sismica del sistema finanziario statunitense (tra l’aprile e il luglio del 2008) il dollaro veniva scambiato a più di 1,50 contro l’euro, nel tripudio dei telegiornali e dei gazzettieri euro-continentali che inneggiavano all’«Europa forte» e alla «locomotiva Germania». In altri termini, l’euro forte costituiva un forte balzello prelevato sul monte-salari dell’Eurozona e, al tempo stesso, una dose di ossigeno per le grandi banche e assicurazioni dopo la crisi scatenata dai crolli bancari negli Usa. Al brusco prelievo dall’Eurozona in nome dell’atlantismo si aggiungeva la beffa della grande stampa finanziaria anglosassone, secondo la quale occorreva mettere in riga non le grandi istituzioni finanziarie salvate con la socializzazione internazionale delle loro perdite, bensì i salari dell’Europa meridionale. Inoltre, gli investimenti diretti all’estero dei capitali industriali dell’Eurozona ci mettevano del loro nella decurtazione del monte-salari, approdando in gran numero – e mai in ordine sparso – nell’Asia orientale e nell’Europa orientale.
Si può constatare che in primo luogo la lotta all’inflazione porta regolarmente acqua al mulino dei detentori dei capitali e delle rendite e che a parità di altre condizioni si avvale di misure che generalmente intaccano l’occupazione, in particolare quando alla capacità di mobilitazione in difesa delle condizioni di vita e di lavoro si contrappongono tutte le leve del potere statale e mediatico, mentre quello che resta di larga parte delle organizzazioni sindacali generalmente si accoda. In secondo luogo, le misure che contrastano l’inflazione finiscono poi per comprimere i salari, in particolare i salari bassi e precari. Persino il salario minimo orario è destinato a significare ben poco per chi lavora in modo intermittente.
Nel regolare l’occupazione e i salari nell’Europa continentale eccelleva il Partito socialdemocratico tedesco. Con la sua cosiddetta Agenda 2010 il primo governo (1998-2002) del socialdemocratico Schröder (cancelliere dal 1998 al 2005) compiva un duro lavoro: tagli alla previdenza sociale, ossia al sistema sanitario, all’assegno di disoccupazione, alle pensioni, irrigidimento delle regole nei confronti di quanti cercano lavoro: salari passabili nei settori ad alta produttività, pochi euro all’ora per gli altri, in parte stranieri e straniere e in parte pure tedeschi e tedesche. Anche se il Partito socialdemocratico ha pagato tale operazione con le sconfitte elettorali a partire dal 2005, di fatto l’erculeo Schröder ha acquisito benemerenze imperiture presso i partiti conservatori di Germania ai quali, una volta arrivati al governo, è poi rimasto il più facile compito di passare con lo strofinaccio sul «mercato del lavoro». A Schröder il padronato internazionale ha poi mostrato la sua gratitudine perdonando in men che non si dica i giri di valzer con Putin e i lauti proventi lucrati grazie all’operazione Northstream, che porta il gas dalla Russia alla Germania attraverso il mare del Nord, evitando la Polonia.
In realtà i socialdemocratici tedeschi hanno fatto scuola, dimostrando agli altri governi delle più svariate gradazioni nell’Eurozona, compresi i governi italiani, che la compressione salariale è possibile a condizione di procedere con cautela e di cominciare a operare i tagli dagli strati più deboli. Questa è vecchia e sordida politica europea. Quando nel 1931 Pierre Laval, allora primo ministro francese (e futuro primo ministro filonazista del regime di Vichy), andava dicendo che la Grande Depressione non toccava la Francia sottintendeva che, con il benevolo concorso dei poteri pubblici e privati, la crisi stava già ricadendo sulle spalle degli immigrati e di quei francesi che non disponevano di strumenti politici per contrastare il deterioramento sociale. Oggi non c’è più il Laval del 1931 ma ci sono i disoccupatori e i precarizzatori dell’Eurozona su commissariamento di Bruxelles. In breve, pare che sia diventato decente che quanti siedono al comando nell’Eurozona si mostrino affranti dalla disoccupazione e dalla precarizzazione, molto meno affranti dai profughi.
http://www.asterios.it/
 La cifra cruciale di questa «preoccupazione» ha un nome e si chiama NAWRU (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment), il tasso di disoccupazione (e precarizzazione) tale da non generare pressioni salariali. Questo potere di contenimento delle cosiddette spinte inflative attraverso la disoccupazione e la precarizzazione è in realtà l’imbrigliamento dei salari, con il loro spostamento progressivo nell’area del lavoro precario. Annualmente la Commissione europea appioppa a ogni Paese un suo NAWRU, ossia un tasso di disoccupazione tale da non generare aumenti salariali: per il 2015 il NAWRU ha varcato la soglia del 10% per l’Italia, è salito al 25% per la Spagna, all’11% per la Francia ed è sceso al 5% per la Germania. Al fine di assicurare una certa tranquillità ai poteri finanziari, la Commissione fissa il NAWRU sempre più in alto per i Paesi «a rischio», arrogandosi un potere predittivo che nessuna istituzione le ha concesso. Nell’ovattato, generale riserbo sull’argomento spicca il ritegno della BCE, un’elegante autocensura nei confronti dei massimi sostenitori del NAWRU che si annidano tra le aquile del cancellierato e della Bundesbank.
Fin dagli anni 1990 la struttura di potere in Italia ha cercato con alterne vicende di seguire la ricetta praticata prima da Reagan e Thatcher e poi applicata più prudentemente dai socialdemocratici tedeschi. Il ritmo di applicazione della ricetta è venuto accelerando negli anni recenti. In realtà, le grandi manovre italiane erano cominciate già nel 1992, erano proseguite sia con il piano di riduzione delle pensioni attraverso la conversione del sistema retributivo nel sistema contributivo (governo Dini, 1995) sia con una prima prova sul mercato del lavoro (governo Prodi, 1996). Sulla scia del governo Schröder, in Italia le grandi manovre avevano ripreso vigore con la vittoria della destra al governo (governo Berlusconi, 2001-2006). La destra si era esposta nel 2002 decidendo di aggredire lo Statuto dei lavoratori e in particolare di abrogare l’articolo 18 che vietava il licenziamento senza giusta causa. Seguivano gli inevitabili sorrisi dei socialdemocratici tedeschi che sanno fare più cautamente e meglio. Le manifestazioni di milioni di oppositori in tutta Italia nel marzo 2002 mettevano in quarantena l’attacco frontale all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma non mettevano fine alle macchinazioni revansciste del padronato. In altri termini, la strategia della famosa «cauta prudenza» che l’Uomo di Arcore aveva adottato per sventare i controlli contro l’evasione fiscale del suo elettorato (primo governo Berlusconi, 1994-95) non valeva nei confronti dello Statuto dei lavoratori. La sconfitta del 2002 è risultata bruciante ma non definitiva. Prima sono stati rimessi insieme i cocci e poi sono stati chiamati a raccolta i poteri economici, politici e mediatici, i quali nell’arco di una dozzina d’anni hanno ridotto l’articolo 18 a un guscio vuoto fino alla sua abolizione (2014).
Lo stillicidio di misure e ancor più di pratiche quotidiane contro la forza-lavoro ha deteriorato non soltanto le condizioni ma anche i rapporti di lavoro tra compagni/e di lavoro, desocializzando ambienti dove in precedenza la solidarietà aveva a lungo prevalso, nonostante il clima di crisi. Inoltre, la frustrazione che ne è seguita si è ritorta ulteriormente contro il sindacato, dissolvendo diffusamente i legami che si erano già indeboliti fin dagli anni 1980, ossia da quando il sindacato aveva cercato di pilotare a favore dei suoi fedelissimi le liste degli ammessi e degli esclusi dalla cassaintegrazione. La posta in gioco diventava dunque il monopolio delle decisioni riguardanti le maestranze. Il datore di lavoro andava riprendendosi il diritto assoluto di assumere e licenziare. La parentesi della più che quarantennale limitazione all’arbitrio del licenziamento grazie all’articolo 18 volgeva al termine, cancellata dalla insindacabilità del licenziamento. Esclusa così di fatto la magistratura da gran parte delle decisioni in materia, rimane la monetizzazione del licenziamento a mezzo di una semplice indennità pecuniaria. Per un’azienda in Italia un normale licenziamento può essere trattato poco più che come una questione di voucher.
Domandiamoci: qual è il modello verso il quale il capitale odierno, in Europa come altrove, intende avviarsi? Semplificando, il modello è quello del lavoro migrante: in breve, scarsi diritti civili, precarietà lavorativa e abitativa, difficoltà e addirittura impossibilità di trasmettere la vita per chi percepisce i salari da lavoro migrante. L’esercizio di quel che resta dei diritti politici e sindacali è messo in naftalina, la perdita del posto di lavoro è deciso su di un pezzo di carta padronale, e – contrariamente a gran parte della schiavitù moderna – il diritto di trasmettere la vita è rimandato a tempi migliori – e di fatto negato ai molti che hanno perso la speranza di ottenere un salario adeguato a mantenere la prole.
Oggi in Italia i grandi mezzi di comunicazione nazionali gongolano per la previsione della produzione di 650mila auto all’anno. Pochi notano che le nascite sono scese ben al di sotto di tale cifra: 509mila nel 2014, la più bassa natalità dall’unità d’Italia. Il saldo naturale della popolazione del 2014 è negativo (meno 100mila unità), cifra del biennio di guerra 1917-18. Si tratta di una tendenza internazionale che trova il suo centro in Cina e nel suo regime di fabbrica-dormitorio ma che va estendendosi per varie cause – tra cui le forme della precarietà del lavoro e dei regimi lavorativi – in molti paesi industrializzati e in via d’industrializzazione. Al fondo della compressione della forza-lavoro e della sua precarietà è in gioco il diritto alla generatività, il diritto alla vita e alla trasmissione della vita.

PREFAZIONE DI FERRUCCIO GAMBINO


mercoledì 7 dicembre 2016

Ricominciamo dal No(i)

Incontro pubblico per definire un nuovo percorso a partire dal No: domenica 11 dicembre al Roma Meeting Centre, in via dello Scautismo, dalle ore 10

Il progressivo inasprimento del conflitto sul referendum costituzionale conferma quanto decisivo sarà l’esito di questo voto. Siamo nel pieno di una battaglia storica, a cui stiamo partecipando con tutte le nostre energie, riuscendo spesso a diventarne protagonisti, come con l’appello degli “Amministratori per il No in difesa dei territori e delle autonomie locali” che ha raccolto adesioni ben al di là della nostra area.

Siamo un pezzo tra i più combattivi di quell’accozzaglia che sta spaventando non poco le centrali finanziarie e le oligarchie politiche di mezzo mondo, preoccupate che il loro fiduciario locale Matteo Renzi non sia più in grado di favorirle e garantirle quanto vorrebbero.
Come ben sappiamo, il risultato referendario è decisamente incerto, nonostante sondaggi incoraggianti, che però sentiamo ingannevoli quanto non mai. Ma sia dovessimo prevalere, sia al contrario risultare minoritari, dopo il 4 dicembre sarà indispensabile proseguire il cammino cominciato nel luglio scorso, consolidare il nostro progetto comunitario. E affinché ciò avvenga, diventa necessario crescere in credibilità e autorevolezza, offrirsi come ambito politico unitario riconoscibile e riconosciuto.
Crediamo non sfugga a nessuno che il dopo-referendum avvierà nel nostro paese una nuova fase e processi politici inediti, che ci auguriamo tuttavia promettenti e non perniciosi. Ma per svolgervi un ruolo, per affermare la nostra soggettività dobbiamo con coraggio e lungimiranza prendere l’iniziativa e assumerci quella responsabilità che forse oggi non corrisponde pienamente allo spessore e alla consistenza di cui disponiamo. Non possiamo lasciare un vuoto a sinistra e consentire che a proporsi siano solo le altre componenti dello schieramento antirevisionista.
Nel confermare dunque l’indizione della nostra terza assemblea nazionale per l’11 dicembre a Roma, siamo qui a ribadire che l’incontro assumerà un’importanza ancora maggiore perché interverranno i diversi soggetti che hanno partecipato alla battaglia per il No.
Sarà pertanto l’occasione non solo per valorizzare il contributo delle diverse realtà, ma anche per ragionare collettivamente sull’esito del voto e, soprattutto, per provare a delineare nuove prospettive politiche.
Non vi sfuggirà di certo che la riuscita dell’iniziativa, oltre alla qualità della discussione, dipenderà molto da chi e quanti vi parteciperanno. Ed è per questo che vi chiediamo il massimo sforzo per essere presenti l’11 dicembre a Roma.
Giorgio Airaudo, Fabio Alberti, Maria Luisa Boccia, Stefano Fassina, Adriano Labbucci, Giulio Marcon, Sandro Medici
Roma, Domenica 11 dicembre, ore 10-18
Roma Meeting Center – L.go Scautismo 1 (Metro B Bologna)
Hanno sinora confermato la partecipazione: Anna Falcone, Luigi Ferrajoli, Tomaso Montanari, Gaetano Azzariti, Claudio De Fiores, Sebastiano Aceto , Ciccio Auletta, Andrea Baranes, Roberta Calvano, Martina Carpani, Giusto Catania, Elena Coccia , Andrea Ferroni , Francesca Fornario, Elettra Deiana, Barbara Evola, Antonello Falomi, Tommaso Fattori, Monica Frassoni, Nicola Fratoianni, Monica Di Sisto, Ida Dominijanni, Paolo Ferrero, Carlo Galli, Chiara Giorgi , Gianpaolo Lambiase , Stefano Lugli , Nando Mainardi , Massimiliano Manfroni , Maurizio Marcelli, Filippo Miraglia, Roberto Musacchio, Grazie Naletto, Silvia Niccolai, Livio Pepino, Gianni Principe, Michele Prospero, Marco Ravera , Marco Revelli, Claudio Riccio, Giulia Rodano, Massimo Rossi , Federico Santi , Bia Sarasini, Massimo Torelli, Raffaele Tecce, Walter Tocci, Andrea Torti, Sara Visintin, Vincenzo Vita, Riziero Zaccagnini
L’incontro si terrà al Roma Meeting Centre, via dello Scautismo dalle ore 10 di domenica 11 dicembre.

sabato 26 novembre 2016

Ricordiamo Fidel Castro e la rivoluzione cubana

Nella storia del comunismo novecentesco l'esperienza cubana, per importanza, attualizzando la Comune di Parigi (1871), s'affianca alla rivoluzione d'Ottobre del 1917.






"Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti" (L’Ideologia tedesca, 1846).

martedì 25 ottobre 2016

N O perché . . .

No perché gli interessi in gioco - territorialmente, economicamente e socialmente vasti - sono "gestiti", paradossalmente, da entrambi gli schieramenti referendari, ridefinendoli in termini di interessi politicamente ristretti. Basta sapere come si è giunti - parlamentarmente - a questo Referendum confermativo  e da chi è sponsorizzato. Ecco perché va riletto il libro "Senza tregua - La guerra dei GAP" di Giovanni Pesce.

Prefazione [kb 8 HTML]
Capitolo Primo Alla macchia [kb 33 HTML]
Capitolo Secondo Nelle Brigate Internazionali [kb 30 HTML]
Capiitolo terzo Come nasce una bomba [kb 44 HTML]
Capitolo Quarto Quanto vale un gappista? [kb 47 HTML]
Capitolo Quinto All'assalto di Torino [kb 42 HTML]
Capitolo Sesto Morte e trasfigurazione [kb 83 HTML]
Capitolo Settimo
Addio Torino [kb 34 HTML]
Capitolo Ottavo Milano[kb 34 HTML]
Capitolo Nono La battaglia dei binari [kb 44 HTML]
Capitolo Decimo Spie, carnefici e giustizieri [kb 32 HTML]
Capitolo Undicesimo Un elemento sicuro [kb 44 HTML]
Capitolo Dodicesimo Valle Olona [kb 40 HTML]
Capitolo Tredicesimo Reazioni a catena [kb 52 HTML]
Capitolo Quattordicesimo A ritmo serrato [kb 60 HTML]
Libro intero [kb 267 ZIP]

Nella Gazzetta Ufficiale del 15 Aprile 2016 è stato pubblicato il testo della Legge costituzionale approvato da entrambe le Camere, in seconda deliberazione, a maggioranza assoluta dei componenti. La riforma dispone, in particolare, il superamento dell'attuale sistema di bicameralismo paritario, riformando il Senato che diviene organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali; contestualmente, sono oggetto di revisione la disciplina del procedimento legislativo e le previsioni del Titolo V della Parte seconda della Costituzione sulle competenze dello Stato e delle Regioni. E' altresì disposta la soppressione del CNEL. 
A seguito della presentazione di richieste di sottoposizione della legge a referendum costituzionale, ai sensi dell'art. 138 della Costituzione, l'Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione ha dichiarato la legittimità del seguente quesito referendario: «Approvate voi il testo della legge costituzionale concernente "Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione" approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?».
Il 4 Dicembre 2016 si svolgerà il referendum popolare confermativo previsto dall'articolo 138 della Costituzione sulla suddetta legge costituzionale.
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Resistenza e Costituzione.

di Alberto Berti

Questo è un discorso che voglio fare soprattutto ai giovani amici di Recsando sapendo che nelle nostre scuole certi problemi che dovrebbero contribuire alla loro formazione di cittadini di una repubblica democratica raramente vengono affrontati e se affrontati lo vengono con estrema superficialità dando loro scarsissima importanza.

Credo che pochissimi conoscano la nostra Carta Costituzionale e che ancora meno siano coloro che si rendono conto di vivere in un paese che ha una delle costituzioni più avanzate fra quelle esistenti.

In Austria, in Svezia, negli Stati Uniti, già in quelle che sono le ultime classi delle scuole elementari, i maestri cominciano a spiegare la Costituzione che regola i rapporti fra i cittadini ed i poteri dello stato in cui vivono. Negli Stati Uniti i ragazzi vengono educati a conoscere anche gli “emendamenti” della loro Costituzione e richiamarsi ad essi.

In Italia, fra qualche settimana, il 22 dicembre festeggeremo (?) i cinquant’anni dell’approvazione a grandissima maggioranza della Costituzione avvenuta nel lontano 22 dicembre 1947 da parte dell’Assemblea Costituente eletta dal popolo italiano il 2 giugno 1946 assieme al referendum che spazzava via la monarchia savoiarda.

L’approvazione della Costituzione ha segnato una svolta fondamentale nella storia del nostro paese, non soltanto per i principi che essa ha posto alla base dell’ordinamento della società italiana, ma anche per le garanzie di cui li ha rivestiti e che hanno il loro perno nella qualificazione della Costituzione stessa come Costituzione rigida.

Cosa vuol dire Costituzione rigida? Vuol dire semplicemente che i “princìpi” in essa enunciati non sono modificabili con procedure legislative ordinarie e, dall’altro lato, che le leggi che sono incompatibili con quei principi non hanno alcuna validità. Sono da ritenersi nulle. Anzi, la dottrina costituzionalista e la giurisprudenza della Corte Costituzionale (anch’essa introdotta nel nostro paese per la prima volta con la Costituzione) hanno messo in luce la regola secondo la quale esiste un nucleo di “principi supremi” che non sono suscettibili di modificazione neppure attraverso i procedimenti di revisione che la Costituzione stessa prevede. Infatti in questi ultimi tempi si è parlato molto di revisione della Costituzione, da parte della Commissione bicamerale appositamente designata, ma se fate caso, leggendo i giornali, vedrete che essa si è occupata dell’ordinamento dello Stato, sul sistema delle elezioni di deputati e senatori, sui compiti attribuiti alle due Camere, sull’elezione del Presidente della Repubblica, sulle funzioni pubbliche attribuite a comuni, provincie, Regioni e Stato, eccetera, quindi la commissione è intervenuta sulla seconda parte della Costituzione e non sulla prima che enunciava i principi fondamentali del nostro vivere civile.

Sarebbe opportuno, senza che io li ripeta qui di seguito, che i miei giovani lettori leggessero i primi articoli della costituzione in modo da poter percepire e comprendere, la portata pratica dell’affermazione dei valori della libertà, dell’eguaglianza e della democrazia. Il catalogo delle libertà che la Costituzione enuncia, comprende, insieme con i classici diritti civili e politici, un complesso di diritti economici e sociali i quali concorrono a qualificare la forma di Stato, oltre che come forma di stato di diritto, anche come stato sociale.

Queste enunciazioni sviluppano, in particolare, i due princìpi, certamente “supremi” che troviamo scritti negli articoli 2 e 3, che fondano la libertà umana e l’esigenza di promuovere in ogni modo possibile l’eliminazione delle discriminazioni - sia di diritto che di fatto - che ostacolano la realizzazione dell’eguaglianza dei cittadini.

Adesso, care sandonaute e sandonauti, occorrerebbe stabilire come la Costituzione italiana sia nata e perché. Ed allora bisogna riandare a quel meraviglioso fenomeno popolare che è stata la Resistenza.

Per dare un significato politico, per stabilire un collegamento tra Resistenza e Costituzione, penso che sia necessario iniziare ricordando il discorso di Piero Calamandrei ai giovani milanesi tenuto nel 1955 che si concluse con la forte immagine secondo la quale la Costituzione veniva presentata come un “testamento”: il testamento dei caduti della Resistenza.

Calamandrei con il suo mirabile discorso voleva tenere viva l’attenzione dei giovani sui valori che la Costituzione aveva codificato e che le vicende politiche successive rischiavano in qualche modo di appannare.

A più di cinquant’anni di distanza mi sembra necessario accentuare non tanto il fatto militare, quanto il forte spessore politico che danno valore alla Resistenza e alla guerra di liberazione.

Se ci volessimo limitare a ricordare la Resistenza come un solo fatto militare saremmo oggi ridotti a celebrarla come vecchi compagni d’armi che si ritrovano, consumano assieme il rancio, ascoltano qualche ricordo, si salutano augurandosi di ritrovarsi l’anno successivo.

Se la guerra di liberazione e la lotta partigiana consistessero soltanto in un evento di carattere militare, terminata la guerra, il 25 aprile 1945, si sarebbe potuto dire missione compiuta, non ne parliamo più. Invece bisogna parlarne, perché la lotta di liberazione del nostro paese non è stata soltanto un fatto di carattere militare, è stata un fatto politico, nel senso nobile della parola, e non partitico: cioè nell’interesse della collettività, del bene collettivo. Infatti nei territori occupati dai nazisti, diciamocelo francamente, l’unica vera forma di rappresentanza dell’Italia era data dai partigiani e da coloro che combattevano per la Libertà.

L’esercito non esisteva più, si era liquefatto come neve al sole, il paese era in mano ai nazisti oppressori e chi veramente rappresentava il paese erano i partigiani, i comitati di liberazione nazionale tant’è vero che furono costituite delle repubbliche partigiane Carnia, Montefiorino, Val d’Ossola, dove i loro governi provvisori emanarono addirittura delle leggi.

Durante quei governi ci fu una distinzione tra giurisdizione civile e quella penale; ci fu una distinzione tra reati comuni e reati politici; ci fu una polizia alle dirette dipendenze della magistratura: tutte cose che hanno servito a quello che si doveva costruire nel nostro paese. E' da ricordare che la costruzione politica derivante dalla Resistenza è stata difficilissima fin dal tempo della Resistenza stessa, perché i partigiani non avevano alle spalle quello che avevano gli altri resistenti e combattenti in Europa. I grandi avvenimenti, come la rivoluzione russa, hanno avuto dei precedenti di carattere culturale e filosofico. Per la rivoluzione francese abbiamo avuto tutto il periodo dell’illuminismo, per la rivoluzione russa abbiamo avuto tutto il marxismo, le sue implicazioni, le culture diverse intorno al marxismo, le discussioni. In Italia dietro le spalle non c’era nulla.


Ci fu chi battezzò la Resistenza come il nostro Secondo Risorgimento. Non sono d’accordo con quel grande storico che fu Luigi Salvatorelli. Anzitutto perché al Risorgimento partecipò, anzi lo portò alla vittoria la monarchia sabauda che non parteciperà alla Resistenza. Il Re che aveva già tradito lo statuto albertino, che non seppe ripudiare il fascismo, che non si tirò indietro né davanti alle leggi razziali ne alla dichiarazione di guerra, di fronte al movimento di Resistenza rimase freddo ed assente ed i motivi li conosciamo sin troppo bene. Pensava di rifarsi una verginità e di far dimenticare le sue malefatte avallando la dichiarazione di guerra alla Germania nazista presentatagli da Badoglio nell’ottobre del 1943.

La differenza tra Risorgimento e Resistenza è notevole: i due movimenti sono paragonabili su un solo piano, quello di liberare l’Italia dall’occupazione straniera. Per il resto, idee, contenuti, esercito, lotte, partecipazione, ecc. sono diversissimi.

Il Risorgimento discende direttamente dalle idee della rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche che fanno balenare nelle menti più aperte degli italiani la possibilità e la necessità di riunire dopo tanti secoli l’Italia in un solo Stato. Quelli che sentono questa necessità e si prodigano per propagandarla costituiscono un'élite minoritaria rispetto al resto della popolazione. Si tratta di nobili, intellettuali, professionisti e studenti. La classe operaia e quella contadina non sentono e da quei problemi non vengono affascinate. Anzi, per quel poco che sanno, li odiano. Per loro l’unità d’Italia significa guerra, carneficine, lutti e miserie di cui loro, contadini ed operai sono costretti a portarne il peso. Infatti essi costituiscono la cosiddetta carne da cannone, quella che deve sacrificarsi sui campi di battaglia. Da ciò deriva il loro odio per i Bandi di mobilitazione generale, le cartoline precetto di richiamo alle armi ed in una parola di tutto ciò che ha attinenza con la guerra.

La Resistenza è una cosa diversa: non esistono né Bandi di mobilitazione, né cartoline precetto. Si va in montagna liberamente, spinti da ideali diversissimi, quando addirittura non saranno i Bandi della repubblica di Salò a costringere i giovani ad una scelta decisiva.

Ci si ritrova in montagna giovani e vecchi, operai e contadini, uomini e donne, comunisti, socialisti, GL, monarchici e persino i cattolici che durante il Risorgimento erano stati col cuore dalla parte del Papato. Per la prima volta nella storia d’Italia contadini ed operai partecipano attivamente alla costruzione del loro futuro e non lo subiscono. Troviamo formazioni partigiane costituite quasi completamente da contadini, come nel cuneese, oppure da operai dei cantieri navali nella Venezia Giulia.

Le donne s’impegnano in tutte le forme possibili: reperimento di viveri in pianura per portarli con le gerle in montagna, cucendo indumenti per il parente o l’amico partigiano, facendo la staffetta da una formazione all’altra, portando ordini e notizie sia dalla pianura che dalla città. Come sarebbe stata possibile altrimenti una Resistenza senza l’aiuto delle donne?

La Resistenza fu infatti, come la definì Salvemini, una guerra di popolo, né più, né meno di quello che aveva dichiarato Parri ai primi di novembre del 1943, quando con Valiani attraversò il confine svizzero per incontrarsi con i delegati angloamericani i quali dal movimento partigiano si aspettavano solo sabotaggi ed informazioni e rimasero strabiliati quando egli affermò ripetutamente che puntava su una guerra del popolo italiano, condotta da una esercito del popolo: i partigiani. A quel tempo i partigiani che erano saliti in montagna ammontavano si e no a qualche migliaio.

Alcuni fatti mi sembrano importanti da chiarire in quanto di solito vengono dimenticati o sottovalutati. Man mano che la lotta partigiana aumentava d’intensità nei territori occupati dai tedeschi essa si conquistò l’ammirazione ed il rispetto dei comandi alleati, specie dopo l’insurrezione di Firenze che pose fine alla lotta sanguinosissima combattuta in Toscana. Nello stesso mese di agosto del 1944 la brigata Rosselli, comandata da Nuto Revelli, impedì per alcuni giorni nella battaglia della Val Stura alla 90° divisione corazzata tedesca di accorrere da Acqui, dove si trovava, a Tolone, valicando il passo della Maddalena, per bloccare lo sbarco angloamericano avvenuto tra Nizza e Marsiglia. Nello stesso tempo i garibaldini di Arrigo Boldrini con i mazziniani di Biasini e Libero Gualtieri combattevano contro i tedeschi sulla linea gotica.

La guerra di liberazione nazionale fu senza alcun dubbio una lotta armata contro l’invasore nazista e contro il fascismo nostrano messosi al suo servizio, ma fu anche una lotta politica che cominciò al Sud nel territorio già liberato dagli angloamericani i quali tardavano a ripristinare le libertà democratiche. In ciò vi era senza alcun dubbio l’interesse di Churchill che voleva difendere la monarchia sabauda e che la riteneva un possibile futuro baluardo contro una eventuale minaccia comunista.

Il congresso del partito d’azione tenutosi a Bari nel gennaio del 1944, che si espresse in modi durissimi all’unanimità contro la monarchia sabauda aveva profondamente turbato Churchill che neanche l’arrivo di Togliatti dalla Russia nel successivo marzo e la conseguente “svolta di Salerno” riuscirà a tranquillizzare.

Il fatto politico più importante fu senza dubbio la creazione dei CLN, i Comitati di Liberazione Nazionale, che consentirono di dare alla Resistenza italiana un unico indirizzo politico, un unico comando generale della lotta partigiana e s’imposero, con loro unitarietà, sia di fronte alle forze partigiane che li riconobbero come loro emanazione, ma anche rispetto alle autorità militari angloamericane.

I CLN che discendevano a grappolo dal centro, Milano, sino al più sperduto paese dove si lottava per la libertà, vennero riconosciuti dagli alleati, ma l’azione politica più importante si svolse a Roma.

Qualche giorno prima della liberazione di Roma, il CLN centrale chiese in forma ultimativa le dimissioni del generale Badoglio da presidente del consiglio, di dare pieni poteri legislativi al governo che si sarebbe formato, di esentare i ministri dal giuramento di fedeltà al Re e di farli giurare invece nell’interesse supremo della nazione e stabilire con un decreto legge che al termine della guerra il popolo italiano avrebbe potuto scegliere la forma statuale che più gli aggradava: monarchia o repubblica.

Liberata Roma, Badoglio fu costretto a dimettersi ed il suo successore, Bonomi, ex presidente del CLN romano, si fece dare pieni poteri legislativi e sulla base degli stessi emanò il 25 giugno 1944 il decreto che stabiliva sia l’elezione di una Assemblea Costituente che la scelta istituzionale, a guerra conclusa, tra Monarchia e Repubblica. Calamandrei commentò:” siamo usciti dalla legalità statutaria e siamo entrati nella legalità precostituente.”

A fine estate, sbalordito dell’opera delle brigate partigiane e dei CLN, il toscano in particolare e dell’importanza assunta dal movimento partigiano che era riuscito a creare tre zone libere ed aveva bloccato una intera divisione corazzata che si stava precipitando a dare manforte alle guarnigioni tedesche che tentavano di impedire lo sbarco, il Comando delle truppe alleate, chiese un incontro con il CLN alta Italia (CLNAI). La delegazione del CLNAI (formata da Parri, Pizzoni, Paietta e Sogno) che si recò a Roma già da mesi liberata, ebbe dagli incaricati del generale Wilson e del Maresciallo Alexander il riconoscimento del diritto di condurre la lotta partigiana, che costituiva un invito alle popolazioni di sostenere il movimento partigiano e fu anche firmato un protocollo di accordo col quale le autorità militari alleate s’impegnavano ad avallare le nomine dei responsabili amministrativi (Prefetti, sindaci, questori, provveditori agli studi,ecc.) effettuate dai CLN.

Il successo della missione romana degli esponenti della Resistenza nel Nord, ancora occupato dai nazisti fu completato dalla promessa Alleata di intensificare i lanci paracadutati di armi ed aiuti di vario genere alle formazioni partigiane.

Il tutto venne raccolto in un protocollo firmato da entrambe le parti. L’importanza politica di questo protocollo è notevolissima: eccetto che nel caso della Jugoslavia, gli alleati avevano sempre trattato con i governi in esilio delle varie nazioni occupate dai tedeschi. In questo caso invece trattavano e firmavano documenti direttamente col movimento partigiano operante nella zona occupata dai nazisti ed ebbe sentore di quelli che erano i motivi ed i programmi del movimento partigiano.

Udirono Parri dichiarare senza mezzi termini che si combatteva per costituire una repubblica democratica che bandisse in quella che sarebbe stata la sua nuova carta costituzionale ogni tipo di guerra di aggressione, che non ci sarebbero più state in Italia discriminazioni dovute a razza, fede religiosa od altro, che l’eguaglianza dei cittadini di fronte alle leggi dello stato non avrebbe avuto limitazioni, eccetera; tutte cose che noi poi troveremo scritte tra i principi della nostra costituzione.

Altro aspetto politico importante della Resistenza italiana fu l’organizzazione degli scioperi dei primi di marzo 1944 che bloccarono l’attività di moltissime fabbriche e di intere città. A Milano si fermarono i tram, lo sciopero bloccò anche Il Corriere della Sera. Non era possibile per i nazifascisti nascondere la gravità che da tali scioperi emergeva. Inoltre fu attraverso l’attività dei propagandisti politici nelle fabbriche, negli uffici e dappertutto che in molti cittadini, sino a quel momento disinteressati, si manifestò il desiderio e la necessità di seguire attentamente le vicissitudini della politica.

Le fucilazioni e le deportazioni di scioperanti, operate dai nazisti, i manifesti affissi nelle strade che annunciavano condanne a morte ottennero solo lo scopo di fare odiare ancor di più dalle popolazioni fascisti e nazisti.

Un altro aspetto che non bisogna dimenticare è l’apporto di idee e programmi che la Resistenza ha elaborato e consegnato ai futuri reggitori della politica nazionale. E da quelle idee e da quei programmi che sono usciti i valori, i principi che sono alla base delle nostra Costituzione che il 22 dicembre compirà cinquant’anni. Ricordiamocelo.

San Donato Milanese, 20 Novembre 1997

Senza tregua - La guerra dei GAP

sabato 15 ottobre 2016

7 Novembre 1917 (25 Ottobre 1917) - 7 Novembre 2016

october_revolution

A 98 anni dalla rivoluzione d’Ottobre

In occasione del 99° anniversario della rivoluzione d’Ottobre, avvenuta il 7 Novembre 1917 (25 ottobre secondo il calendario giuliano), pubblichiamo alcune pagine del libro di Victor Serge, “L’Anno primo della rivoluzione russa” pubblicato nel 1930.
In questi estratti Serge spiega come l’insurrezione dell’Ottobre rappresentò il culmine di un processo rivoluzionario di massa e sottolinea il ruolo chiave del partito bolscevico e della sua direzione. Nel farlo, l’autore replica a quegli “studiosi” che oggi liquidano l’Ottobre come un colpo di stato o un putsch.
L’Anno primo della rivoluzione russa - Capitolo secondo - L’insurrezione del 25 ottobre 1917 - Il partito del proletariato
Le masse hanno milioni di facce; non sono affatto omogenee; sono dominate da interessi di classe diversi e contraddittori; non giungono a una vera coscienza – senza la quale non è possibile alcuna azione feconda – che attraverso l’organizzazione. Le masse insorte della Russia pervengono alla chiara coscienza dell’azione necessaria, degli obiettivi da raggiungere, per mezzo del partito bolscevico. Non è una teoria, è l’enunciazione di un fatto. I rapporti tra il partito, la classe operaia, le masse lavoratrici ci appaiono con limpida evidenza. Quello che vogliono confusamente i marinai di Kronstadt, i soldati di Kazan’, gli operai di Pietrogrado, di Ivanovo-Voznesensk, di Mosca, ovunque, i contadini che saccheggiano le case dei signori, quello che tutti vogliono, senza avere la possibilità di esprimere con chiarezza le loro aspirazioni, di confrontarle con le possibilità economiche e politiche, di dare ad esse i fini più razionali, di scegliere i mezzi più idonei per raggiungerli, di scegliere il momento più propizio per l’azione, d intendersi da un capo all’altro del paese, di informarsi, di disciplinarsi, di coordinare i loro sforzi innumerevoli, in una parola, di costituire una forza compatta, intelligente, istruita, volontaria, prodigiosa, quello che tutti vogliono, il partito lo esprime -in termini chiari, – e lo fa. Il partito rivela loro quello che pensano. Il partito è il legame che li unisce tra di loro, da un capo all’altro del paese. Il partito è la loro coscienza, la loro organizzazione.
Quando gli artiglieri delle corazzate del Baltico cercano una via, preoccupati del pericolo che incombe sulla rivoluzione, c’è un agitatore bolscevico che gliela mostra. Non ce n’è un’altra, è evidente. I soldati nelle trincee vogliono esprimere la loro volontà a porre fine al massacro, essi eleggono i candidati del partito bolscevico nel loro comitato. Quando i contadini, stanchi dei continui rinvii del partito socialista-rivoluzionario, si domandano se non sia ormai tempo di agire da soli, li raggiunge la voce di Lenin: “contadino, prendi la terra”. Quando gli operai si sentono circondati da tutte le parti dal complotto controrivoluzionario, la “Pravda” consegna loro le parole che essi essi sentivano e che sono anche quelle della necessità rivoluzionaria.
Quando in una strada dei quartieri poveri si formano crocchi di persone davanti a un manifesto bolscevico, si sente esclamare: “Ma è così”. È così. Questa è la loro voce. L’avanzata delle masse verso la rivoluzione si traduce così in un grande fatto politico: i bolscevichi, piccola minoranza rivoluzionaria in marzo, in settembre-ottobre diventano il partito di maggioranza. Diventa impossibile. distinguere tra il partito e le masse. È una sola ondata. Senza dubbio nella folla ci sono altri rivoluzionari sparsi, socialisti-rivoluzionari di sinistra – più numerosi -.anarchici, massimalisti, che vogliono anche la rivoluzione: un pugno d’uomini trascinati dagli avvenimenti. Agitatori che si lasciano trascinare. In diverse occasioni vedremo come la loro coscienza dei fatti sia confusa. I bolscevichi, grazie alla loro concezione teorica della dinamica degli avvenimenti, si identificano insieme con le masse lavoratrici e con la necessità storica. “I comunisti non hanno interessi distinti da quelli dell’insieme del proletariato” è scritto nel Manifesto di Marx ed Engels. Questa frase scritta nel 1847 è ora più che mai giusta!
Dopo i fatti di luglio, il partito ha passato un periodo di clandestinità e di persecuzioni, è appena tollerato. Esso si organizza in colonna d’assalto. Ai suoi membri domanda abnegazione, passione. e disciplina: la loro unica ricompensa sarà la soddisfazione di servire il proletariato. I suoi iscritti tuttavia aumentavano. In aprile poteva contare su 72 organizzazioni, forti di 80 000 membri. Alla fine di luglio i suoi iscritti raggiungono i 200 000, riuniti in 162 organizzazioni.
Sulla via dell’insurrezione
Dopo la caduta dell’autocrazia, il partito bolscevico si avvia al potere con una fermezza, una lucidità e un’abilità davvero sorprendenti. Per convincersene basta leggere le Lettere da lontano, scritte da Lenin poco prima della partenza da Zurigo,nel marzo 1917. Ma come ogni definizione di un fatto storico, che voglia essere precisa, anche questa non è esatta. Il partito si avvia al potere dal giorno in cui il suo comitato centrale di emigrati quasi sconosciuti (Lenin, Zinov’ev) affermava che “la guerra imperialista doveva essere trasformata in guerra civile” (1914), o, andando ancora più indietro, dal giorno in cui era nato per preparare la guerra civile (congresso di Londra, 1903). Arrivato a Pietrogrado, .il 3 aprile 1917, Lenin, dopo aver rettificato l’indirizzo politico dell’organo centrale del partito, definisce subito gli obiettivi del proletariato e non si stanca di insistere tra i militanti sulla necessità della conquista, attraverso la persuasione, delle masse operaie. Nei primi giorni di luglio, quando un’ondata di furore popolare investe per la prima volta il ministero di Kerenskij, i bolscevichi si rifiutano di seguire il movimento. Questi agitatori, non si lasciano trascinare. Essi non vogliono un’insurrezione prematura; la provincia non è pronta, la situazione non è matura. Essi frenano, resistono alla corrente, sfidano l’impopolarità. La coscienza del proletariato, incarnata dal partito, entra per un momento in conflitto con l’impazienza rivoluzionaria delle masse. E un conflitto pericoloso! Se il nemico fosse stato più coraggioso, più intelligente delle masse gli avrebbe portato una facile vittoria. “Ora ci fucileranno tutti”, disse Lenin ai suoi amici il giorno dopo le. Giornate di luglio. Lenin aveva ragione in teoria: era forse la sola possibilità per la borghesia di far subire al proletariato un grande salasso preventivo dal quale non si sarebbe ripreso per mesi, forse anni. Per fortuna, la borghesia vedeva meno chiaro di Lenin nel suo proprio gioco. Le mancò il coraggio (non era certo la voglia che faceva difetto). Dopo luglio i suoi rappresentanti più energici tentano di riparare a questa debolezza. Essi sognano un potere forte! Ci troviamo tra due dittature: il regime di Kerenskij non è più che un interregno. Il fallito colpo di stato di Kornilov (con Savinkov e Kerenskij dietro le quinte) porta una nuova mobilitazione del proletariato. Da questo momento la situazione si aggrava sempre più minacciando di diventare disperata; per il proletariato, che è in condizioni sempre più precarie e sente che se non vince ora, verrà duramente colpito; per i contadini, che assistono ai continui rinvii della rivoluzione agraria loro promessa dai socialisti-rivoluzionari al potere, in attesa di vederla svanire ad opera di qualche Bonaparte della sconfitta; per l’esercito e la flotta, costretti a continuare una guerra disperata al servizio di classi nemiche; per la borghesia, sempre più compromessa dal caos dei trasporti, dall’usura degli impianti industriali, dalla crisi della produzione, dalla carestia, dall’impossibilità di placare le masse, dalla mancanza d’autorità e dalla debolezza del suo meccanismo di coercizione.
Dopo le giornate di luglio Lenin disse a Bonc-Bruevic: “L’insurrezione è assolutamente inevitabile. Essa sarà obbligatoria tra qualche tempo. Essa non può non essere”. A partire dalla metà di settembre il partito incomincia a orientarsi risolutamente verso la battaglia. La Conferenza democratica, che costituirà il preparlamento, si riunisce dal 14 al 22 settembre. Lenin dal suo rifugio clandestino, richiede con veemenza il ritiro della frazione bolscevica dalla conferenza; un certo numero di compagni avrebbe voluto accettare la parte di estrema opposizione parlamentare. Sostenuta dalla. maggioranza del partito, l’opinione di Lenin ebbe la meglio. I bolscevichi escono sbattendo la porta. Trockij legge alla conferenza la loro dichiarazione: “L’infiammata parola di L. D. Trockij, che aveva da poco apprezzato i piaceri della prigione sotto il regime della borghesia e dei menscevichi, spezza come una clava tutte le trame ordite dai diversi oratori del centro. Egli afferma, in termini chiari e precisi, che non era possibile ritornare indietro; che gli operai non lo pensavano nemmeno; che i contadini non vedevano che la via della nuova rivoluzione. Si era fatto un silenzio di tomba; un fremito passò sulle poltrone dove sedevano i capi della borghesia…. Gli applausi scoppiarono nelle tribune e nella sala…” “Qui si affermò definitivamente la volontà dell’insurrezione, e ci volle tutto il tatto, tutta l’autorità del comitato centrale perché il desiderio generale, apertamente espresso, non si traducesse subito in azione; era troppo presto e avrebbero potuto ripetersi le giornate di luglio, ancora più sanguinose”.
Negli ultimi giorni di settembre o i primi di ottobre il comitato centrale del partito bolscevico si riunisce nell’appartamento del menscevico Suchanov; sono presenti Lenin, Trockij, Stalin, Sverdlov, Jakolevka, Oppokov, Zinov’ev, Kamenev. Si discute il principio stesso dell’insurrezione. Kamenev e Zinov’ev (Nogin e Rykov che condividevano le loro idee non erano presenti a questa riunione) pensavano che l’insurrezione avrebbe potuto forse vincere, ma che sarebbe stato impossibile mantenere il potere a causa delle difficoltà economiche e della crisi degli approvvigionamenti. La maggioranza si pronunciò a favore dell’insurrezione, che fu persino fissata per il giorno del 15 ottobre. A questo proposito vogliamo insistere su un punto. Queste idee in uomini che avevano fatto loro esperienza negli anni della lotta e che sarebbero passati in seguito attraverso tutta la guerra civile senza cedere ad alcuna debolezza, non denotavano certo una tendenza all’opportunismo e alla debolezza menscevica. Esse denotavano piuttosto, anche in solidi rivoluzionari, una certa sopravvalutazione delle forze dell’avversario, una certa mancanza di fiducia in quelle del proletariato. Non si gioca con l’insurrezione. È dovere del rivoluzionario prevedere ogni possibilità, ogni eventualità, se essi temono la sconfitta della rivoluzione, la loro preoccupazione non ha nulla in comune con la paura della rivoluzione degli opportunisti che nulla temono più della vittoria del proletariato. Rimane tuttavia il fatto che questi legittimi timori si fondano su una valutazione errata dei fatti e costituiscono un pericolo enorme per la politica generale del partito; essi possono farla deviare in modo irreparabile. Il tempo lavora per la rivoluzione, ma passato un certo momento, lavora contro di essa; il semplice rinvio di un’azione può significare un’azione perduta. Il proletariato italiano ha pagato a caro prezzo la sua indecisione del 1920; l’occasione che si è presentata al proletariato tedesco nel 1923 potrà certamente presentarsi ancora; ma quando? L’errore di coloro che rimandavano l’insurrezione era quindi un errore grave, ed essi l’hanno più tardi riconosciuto. Il 10 ottobre il comitato centrale del partito bolscevico (presenti Lenin, Zinov,’ev, Kamenev, Stalin, Trockij, Sverdlov, Urickij, Dzerzinskij, Kollontaj, Bubnov, Sokol’nikov, Lomov) decideva, con dieci voti contro due la preparazione immediata dell’insurrezione. La preparazione era affidata a un ufficio politico composto da Lenin, Trockij, Zinov’ev, Stalin, Kamenev, Sokol’nikov e Bubnov.
I dirigenti proletari.
Un rapporto simile a quello che esiste tra la massa operaia e il partito esiste in seno al partito tra l’insieme dei militanti e i dirigenti.
Il partito è il sistema nervoso – e il cervello – della classe operaia. I dirigenti e i quadri hanno nel partito la funzione del cervello e del sistema nervoso nell’organismo. Non si prenda alla lettera questo paragone: la differenziazione delle funzioni in un organismo vivente e molto diversa da quella che avviene nella società. Ma per quanto siano coscienti, i militanti del partito non possono conoscere la situazione nel suo insieme. A loro mancano inevitabilmente le informazioni, i collegamenti, l’istruzione, la preparazione retorica e professionale del rivoluzionario – qualunque sia il loro valore personale, – se non fanno parte dei quadri del partito selezionati da anni di lotta e di lavoro, assecondati dalla collaborazione di tutto il movimento, che dispongono dell’apparato del partito e sono abituati al pensiero e all’azione collettiva. Come il soldato nella trincea non vede che un’infima parte del campo di battaglia e non può rendersi conto, quali che siano le sue capacità dell’azione in cui si inserisce, come il meccanico non può dalla sua macchina seguire il funzionamento. dell’intera officina, il militante, lasciato a se stesso, non può orientarsi che sulle idee generali, sui sentimenti, sulle conoscenze parziali. I veri dirigenti proletari sono insieme le guide, i piloti, i capitani e i direttori d’azienda: si tratta di una grande una grande azienda per la demolizione e l’edificazione sociale. Essi hanno il dovere, attraverso l’analisi scientifica, di scoprire le linee di forza degli avvenimenti, le loro tendenze. Le possibilità che dischiudono, di comprendere quello che deve fare il proletariato, non secondo la sua volontà o le aspirazioni del momento, ma per la necessità storica; in una parola, di conoscere il reale, di percepire il possibile, di concepire l’azione che sarà il tramite tra il reale e il possibile; così facendo essi si pongono costantemente dal solo punto di vista degli interessi superiori del proletariato; il loro pensiero è quello del proletariato armato di una disciplina scientifica. La coscienza di classe del proletariato raggiunge così la sua più alta espressione nei dirigenti dell’avanguardia organizzata della classe operaia. La loro personalità è grande solo nella misura in cui è espressione delle masse. In questo senso essa è gigantesca e anonima. Essi esprimono i sentimenti di tutti e una virtù che è anche, per il proletariato, una necessità: terribile impersonalità!
Certo. Ma il loro merito – il genio di un Lenin – deriva dal fatto che lo sviluppo della coscienza di classe non è un processo fatale; il sentimento generale può rimanere latente, inespresso, in un momento determinato; le possibilità che emergono da una situazione possono non essere colte; come può non essete compresa l’azione necessaria alla salvezza o alla vittoria del proletariato. La storia recente del proletariato dell’Europa occidentale è ricca di esempi di azioni abortite per la debolezza della coscienza di classe.
Il dirigente proletario, uomo dei tempi nuovi, può essere infine definito per antitesi con i capi delle vecchie classi dirigenti e delle nuove classi possidenti. Questi ultimi sono gli strumenti ciechi della necessità storica; il rivoluzionario è il suo strumento cosciente.
Possiamo dire che la rivoluzione d’ottobre ci offre l’esempio di un partito proletario ideale. Relativamente poco numeroso, i suoi militanti sono a stretto contatto delle masse; lunghi anni di lotta – una rivoluzione, la clandestinità, l’esilio, la prigione, continue battaglie di idee – hanno formato quadri ammirevoli e autentici dirigenti; 1’unità delle loro idee si è cementata nell’azione comune. L’iniziativa collettiva e il rilievo di forti personalità si armonizzano con una centralizzazione intelligente, una disciplina volontaria, il rispetto delle guide riconosciute. In questo partito, che dispone di un eccellente apparato organizzativo, non trovi la minima deformazione burocratica; non riscontriamo alcun feticismo della forma; non ci sono tradizioni malsane o equivoche; la sua tradizione dominante è quella della guerra all’opportunismo. È un partito rivoluzionario fino ai midollo. Tanto più significativo che alla vigilia dell’azione si siano fatte sentire esitazioni profonde e tenaci e che numerosi militanti, tra i più influenti, si siano pronunciati con forza contro la presa del potere.
Lenin
Abbiamo detto altrove quale potenza dell’unità sia stata la figura di Lenin, uomo costruito d’un blocco solo, interamente votato, in tutti i momenti della sua vita, a un’unica opera. Egli era tutt’uno col suo partito e, attraverso il partito, col proletariato; egli fu tutt’uno, nelle ore decisive, con il popolo lavoratore della Russia intera e, al di là delle frontiere insanguinate, con i proletari e gli oppressi di tutti i paesi. Per questo egli appariva, nell’ottobre, come il capo per eccellenza, il capo unico della rivoluzione proletaria. Conosciamo lo stato d’animo delle masse nel settembre-ottobre. Alla metà di settembre, con un urgente messaggio, Lenin scongiura il comitato centrale di prendere il potere. Segue poco dopo un’altra lettera sul Marxismo e l’insurrezione. Il potere non è ancora conquistato che Lenin, ben sapendo che spesso è più difficile mantenere il potere che prenderlo e che l’essenziale è rivelare la loro forza ai protagonisti della rivoluzione, scrive un opuscolo intitolato I bolscevichi conserveranno il potere statale? (fine di settembre). Il 7 ottobre, un nuovo articolo, un nuovo appello: La crisi è matura. A partire da questo momento egli è pervaso da una sacra impazienza. Si succedono le sue lettere al comitato centrale, al partito, ai militanti, con un tono ora persuasivo, ora autoritario , incalzante, molesto. Sopra la testa del comitato centrale egli si indirizza ai comitati di Mosca e di Pietrogrado: Temporeggiare è un delitto! (inizio di ottobre). L’8 ottobre compaiono i suoi Consigli di uno spettatore, dedicati all’insurrezione. Il 16- 17 ottobre, una lunga lettera memorabile, Ai compagni, respinge energicamente le obiezioni degli avversari dell’insurrezione. Le ultime resistenze sono vinte. Lenin, il capo, formatosi in venti tre anni di lotta (dal 1895), agendo all’unisono con i contadini, gli operai, i soldati, i marinai, il grande popolo del lavoro, ha segnato l’ora e ha dato il segnale dell’azione decisiva. Ma dovette ricorrere a tutta la sua energia – e a quella di qualcun altro – per superare delle esitazioni che rischiavano di diventare fatali. I suoi scritti di quest’epoca sono riuniti in un volume dal titolo Sulla via dell’insurrezione. Essi formano un libro vivo, di cui è ancora difficile valutare tutta l’importanza. Modello di dialettica rivoluzionaria , trattato di teoria e di pratica insurrezionale, trattato sull’arte di vincere nella guerra di classe, pensiamo che esso segni una data, come il Manifesto comunista, al quale, sulla soglia dell’era del proletariato, apporta un complemento necessario. La dottrina di Lenin sull’insurrezione si può riassumere in poche righe:
“Per riuscire l’insurrezione deve appoggiarsi non su di un complotto, non su di un partito, ma sulla classe progressiva. Questo in primo luogo. L’insurrezione deve appoggiarsi sull’ondata rivoluzionaria del popolo. Questo in secondo luogo. L’insurrezione deve appoggiarsi su quel punto critico nella storia del processo rivoluzionario che è il momento in cui l’attività della maggioranza del popolo è massima e più forti sono le esitazioni nelle file dei nemici e nelle file degli amici deboli, equivoci e indecisi della rivoluzione. Questo in terzo luogo. Ecco le tre condizioni che, nell’impostazione del problema dell’insurrezione, distinguono il marxismo dal blanquismo”. (Il marxismo e l’insurrezione).
E nell’insegnamento di Marx: “Non giocare mai con l’insurrezione ma una volta cominciata occorre andare fino in fondo”.
Perché Lenin, in questo momento, accanto a tanti altri uomini di valore. che come lui vedono chiaramente la via da seguire viene riconosciuto come il capo unico? Numerosi militanti responsabili di San Pietroburgo e di Mosca – per non parlare che delle capitali e del gruppo dirigente del partito, con un’indebita restrizione si preparavano coscientemente all’insurrezione. Trockij, presidente del Soviet, dal momento del suo arrivo in Russia non ha mai avuto la minima esitazione sulla via da seguire. La sua identità di vedute con Lenin, salvo i particolari dell’esecuzione, è totale. Al comitato centrale del partito la grande maggioranza vota a favore dell’azione, Ma nessuno tra tutti questi rivoluzionari gode di un ascendente paragonabile a quello di Lenin. La maggior parte di loro, suoi discepoli, lo riconoscono come il maestro. Trockij, le cui qualità di organizzatore della vittoria si dimostrano ora sorprendenti, è stato per lungo tempo isolato nella socialdemocrazia russa, ad eguale distanza da menscevichi e bolscevichi. Numerosi bolscevichi si ricordano di lui come di un avversario. Entrato nel comitato centrale alla fine di luglio, pochi giorni dopo la sua adesione al partito, è considerato un grande nuovo venuto. È il partito che fa i capi, senza partito non ci sono capi: questa è la vera realtà. Lenin diventa il capo della rivoluzione perché è il creatore del partito del proletariato.
La guardia rossa
Nelle due capitali gli avvenimenti si succedono, in modo diverso, ma con notevole parallelismo.
L’iniziativa della formazione della guardia rossa è degli operai delle fabbriche di Pietrogrado che la costituirono d’istinto dopo la caduta dello zarismo. Essi cominciarono ad armarsi procedendo al disarmo del vecchio regime. In aprile, due militanti bolscevichi, Sljapnikov ed Eremeev, cercarono di dare sistematicità all’organizzazione spontanea delle guardie rosse. Le prime formazioni regolari, se possiamo definirle tali, di questa milizia operaia si costituirono nei quartieri operai, soprattutto in quello di Vyborg. Menscevichi e socialisti-rivoluzionari tentarono all’inizio di opporsi al movimento. In giugno, in una seduta a porte chiuse del soviet, dove essi avevano ancora la maggioranza, il socialdemocratico Cereteli chiede il disarmo degli operai. È troppo tardi. Sono stati creati gli stati maggiori di zona(raion); uno stato maggiore generale assicurava il loro coordinamento. Formate per officina sulla base del volontariato collettivo, – e non individuale: era l’officina che decideva di formare un contingente in cui si arruolava compatta, – le prime guardie rosse si assunsero il compito della protezione delle grandi manifestazioni operaie. All’epoca dei fatti di luglio le guardie del rione di Vyborg tennero facilmente testa alle truppe di Kerenskij. Pietrogrado contava in questo momento 10 000 guardie rosse. Il colpo di stato di Kornilov (25- 30 settembre), la marcia di una divisione cosacca sulla capitale, il pericolo della controrivoluzione, costrinsero il soviet dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari ad armare frettolosamente gli operai. Non senza esitazioni: quando gli operai delle fabbriche di munizioni di Schlùsselburg inviarono a Pietrogrado un carico di granate il soviet si rifiutò di ritirarle: ci pensò la guardia rossa. L’iniziativa operaia provvedeva a tutto nonostante la cattiva volontà dei socialisti della pace sociale. La mobilitazione del proletariato contro Kornilov dimostra che una controrivoluzione mancata può essere altrettanto pericolosa per la borghesia quanto un’insurrezione mancata per il proletariato.
Nel settembre, in 79 fabbriche ed officine di Pietrogrado gli operai venivano addestrati all’uso delle armi. In diverse officine tutti gli operai portavano le armi. L’organizzazione militare del partito bolscevico non era in grado di fornire un numero sufficiente di istruttori a queste masse. Alla vigilia della rivoluzione d’ottobre gli effettivi della guardia rossa raggiungevano i 20 000 uomini, riuniti in battaglioni di 400 o 600 uomini, ciascuno dei quali era diviso in tre compagnie, una sezione di mitraglieri, una sezione di collegamento, una sezione di portaferiti; qualche volta potevano disporre di un’autoblinda. Alla testa dei battaglioni e delle compagnie si trovavano dei sottufficiali (operai). Essi prestavano servizio a turno. I due terzi degli operai lavoravano in fabbrica; il terzo rimanente, era “di guardia”, e il tempo di servizio era pagato come tempo di lavoro. L’ammissione alla guardia rossa è condizionata dai suoi statuti alla presentazione da parte di un partito socialista, di un comitato d’officina o di un sindacato. Tre assenze non giustificate sono motivo di esclusione. Le infrazioni alla disciplina sono esaminate da una giuria di compagni. L’impiego delle armi senza autorizzazione è considerato una colpa grave. Gli ordini devono essere obbediti senza discussione. Le guardie rosse dispongono di tessere numerate. I quadri devono essere eletti; in realtà, erano spesso designati dai comitati d’officina o da altre organizzazioni operaie, e la nomina dei comandanti doveva essere ratificata dal soviet di zona. I comandanti, se non avevano un’istruzione militare, erano tenuti a frequentare dei corsi speciali.
È bene ricordare, a proposito di questa grande iniziativa del proletariato di Pietrogrado, che essa non faceva che seguire i desideri e le istruzioni esplicite – ma segrete – di Lenin. In una delle sue Lettere da lontano, scritta da Zurigo l’11-24 marzo 1917, e che solo più tardi sarebbe stata pubblicata come documento storico, Lenin, parlando della “milizia proletari”, scongiurava gli operai di “non lasciare ritornare la polizia!ii non abbandonare le istituzioni locali!”, e di costituire senza perdere tempo una milizia che comprendesse anche le donne e i giovani. “Occorrono, – egli terminava – dei prodigi di organizzazione”.
A Mosca, la formazione della guardia rossa fu assai più faticosa. Le autorità – alla cui testa si trovavano menscevichi e socialisti rivoluzionari – erano quasi riuscite a disarmare gli operai e una parte della guarnigione. Bisognò fabbricare di nascosto delle granate, procurarsi degli esplosivi in provincia. L’organizzazione del comando e dei collegamenti subì deplorevoli ritardi.
Queste insufficienze e questi ritardi, al momento dell’insurrezione, costarono al proletariato di Mosca una sanguinosa battaglia di strada di sei giorni.
L’organizzazione militare del partito comprendeva oltre centomila soldati e un certo numero di ufficiali. Essa si preparava a costituire ovunque dei comitati militari rivoluzionari, organi dirigenti dell’insurrezione.
Vigilia d’armi
A Pietrogrado il conflitto tra i due poteri – il governo provvisorio presieduto da Kerenskij, e il soviet – entra in una fase acuta a partire dal 16 ottobre, dal momento della creazione presso il soviet di un comitato militare rivoluzionario composto da Antonov-Ovseenko, Podvojskii e Cudnovskij. La guarnigione di Pietrogrado era conquistata al bolscevismo. Il governo, col pretesto dell’eventualità di una offensiva tedesca, tentò di allontanare dalla capitale i reggimenti più rivoluzionari. Per mezzo dei suoi servizi di collegamento, d’informazione e di armamento il comitato militare rivoluzionario cominciò a designare dei commissari presso tutte le unità di truppa; dall’altra parte, anche la borghesia si armava; la nomina di commissari presso gli arsenali le impediva di continuare; i delegati del comitato militare rivoluzionario furono accolti bene dai soldati, che sapevano che il comitato era deciso a impedire il loro invio al fronte. In effetti il comitato rifiutò di controfirmare l’ordine di partenza dei reggimenti rossi, avendo l’accortezza di giustificarlo con il desiderio di informarsi prima sulle forze della difesa… Il comitato militare rivoluzionario assunse le funzioni di quartier generale della guardia rossa. Infine, esso ordinò alle truppe di non obbedire ad alcun ordine che provenisse dal comando della piazza. Da questo momento l’insurrezione era allo stato latente. Due poteri si fronteggiavano e due autorità militari di cui una – quella insurrezionale – annullava deliberatamente gli ordini dell’altra.
Il II congresso panrusso dei soviet doveva riunirsi a Pietrogrado il 15 ottobre. I menscevichi riuscirono ad aggiornarne la riunione fino al 25 ottobre- 7 novembre, concedendo così al governo provvisorio della borghesia una dilazione di dieci giorni. Nessuno dubitava che il congresso che avrebbe avuto una maggioranza bolscevica, si sarebbe pronunciato per la presa del potere. “Voi fissate la data della rivoluzione!”, dicevano i menscevichi ai bolscevichi. Perché la decisione – ormai certa – non rimanesse un fatto platonico, era necessario appoggiarla con la forza delle armi. Sulla data dell’insurrezione vennero espresse due opinioni diverse: Trockij voleva legarla al congresso dei soviet, pensando che una iniziativa insurrezionale del partito avrebbe avuto minori possibilità di trascinare le masse; Lenin riteneva “criminale” aspettare fino al congresso dei soviet, temendo che il governo provvisorio prevenisse l’insurrezione con una vigorosa offensiva. I fatti non giustificarono questo timore, tuttavia legittimo; il nemico si rivelò assai più debole di quanto non si pensasse. Ai nostri occhi si scontravano due concezioni altrettanto giuste ma poste su due piani differenti; la prima, di carattere strategico si ispirava alla necessità di legare l’azione del partito alle rivendicazioni più elementari e comprensibili delle masse (“tutto il potere ai soviet”), che è una delle condizioni del successo; la seconda, di carattere politico generale, tendeva a eliminare ogni illusione sulla possibilità di costituire un vero potere proletario prima dell’insurrezione. Infatti, una volta ammessa questa possibilità teorica, perché non si sarebbe potuto dire senza insurrezione? Era una china pericolosa. Dal 1906 Lenin denunciava la tendenza a “velare o nascondere la parola d’ordine dell’insurrezione dietro a quella dell’organizzazione del potere rivoluzionario”. La sua dottrina potrebbe essere così definita: vaincre d’abord, prima vincere.
Lenin voleva che l’insurrezione precedesse il congresso; quest’ultimo, messo davanti al fatto compiuto, non avrebbe fatto che sanzionarlo. Precisò queste idee in una conferenza personale con gli organizzatori dell’azione. Egli si interessava con passione a tutti i particolari dell’insurrezione, deciso a evitare a tutti i costi che l’offensiva venisse rinviata. Nevskij e Podvojskij avevano un bel dirgli che una preparazione di qualche giorno in più non avrebbe fatto che aumentare le possibilità di successo.. Egli rispondeva invariabilmente: “Anche il nemico ne approfitterebbe”. Antonov-Ovseenko ci ha dato la ricostruzione di un colloquio con Lenin, due giorni prima della battaglia, in una casa del quartiere operaio di Vyborg. Lenin, ricercato dalla polizia di Kerenskij, Lenin che in caso di cattura sarebbe stato probabilmente ucciso da qualche pallottola vagante, era irriconoscibile. “Ci trovammo in presenza di un piccolo vecchio dai capelli grigi, con il pince-nez, ma con un buon portamento e un aspetto piuttosto bonario; lo si sarebbe detto un musicista, o un libraio antiquario. Egli si levò la parrucca e riconoscendo il suo sguardo ardente, come al solito pieno di humour: “Cosa c’è di nuovo?” Era pieno di fiducia. Si informò sulla possibilità di chiamare la flotta a Pietrogrado. All’obiezione che ciò avrebbe significato sguarnire il fronte del mare, egli replicò perentoriamente: ” Ebbene ! I marinai devono ben comprendere che la rivoluzione è più minacciata a Pietrogrado che sul Baltico”.
La fortezza di Pietro e Paolo, situata nel centro della città su un isolotto della Neva e ben munita di cannoni, un grosso motivo di preoccupazione per il comitato militare rivoluzionario. Le sue artiglierie minacciavano il Palazzo d’Inverno. Il suo arsenale conteneva 10000 fucili. La sua guarnigione sembrava fedele al governo provvisorio. Trockij propose di prendere la cittadella dall’interno attraverso un comizio. Ci riuscì (insieme a Lasevic).
Il 22 ottobre fu la grande giornata del soviet di Pietrogrado; fu il grandioso plebiscito della rivoluzione. Come spesso capita quando si compiono avvenimenti di immensa grandezza, la causa immediata pare di secondaria importanza: perché spesso non c’è nella catena delle cause che l’ultima debole maglia. Il comitato esecutivo centrale dei soviet, ancora dominato dai socialisti della pace sociale, aveva in sue mani la cassa del soviet di Pietrogrado. Quest’ultimo aveva bisogno di un giornale.
Si decise di organizzare una serie di grandi comizi al fine di raccogliere i fondi necessari alla creazione di un organo di stampa. La stampa borghese, terrorizzata da questa mobilitazione delle masse, gridò alla sommossa. Kerenskij tenne un linguaggio che parve energico, ma che non era che quello di un fanfarone. “Tutta la Russia è con noi! Non abbiamo nulla da temere”. Egli minacciava “di liquidare in modo decisivo e completo gli elementi, i gruppi, i partiti che osano attentare alla libertà del popolo russo, e rischiano, nello stesso momento, di aprire il fronte ai tedeschi”. Un Galiffet! Un Cavaignac! Vane minacce. Era troppo tardi. La giornata del 22 vide una formidabile mobilitazione delle masse. Tutte le sale straboccarono. Alla Casa del Popolo (Narodnyj Dom) migliaia di persone riempirono i corridoi, le gallerie, le sale; nella grande hall grappoli umani erano appollaiati, frementi, sull’armatura metallica dell’edificio… John Reed era tra essi; le sue note su questa assemblea, nella quale la voce di Trockij scatenò l’entusiasmo della folla, meritano di essere citate:
“Intorno a me la gente sembrava in estasi. Mi sembrava che la folla fosse sul punto di intonare, improvvisamente, senza intesa né segnale, un inno religioso. Trockij lesse una risoluzione il cui senso generale era che si doveva versate fino l’ultima goccia di sangue per la causa degli operai e dei contadini… ‘Chi è favorevole?’ La folla innumerevole alzò le mani come un sol uomo. Vedevo queste mani alzate e gli occhi ardenti degli uomini, delle donne, degli adolescenti, degli operai, dei soldati, dei mugiki…Trockij continuava a parlare. Le mani, innumerevoli, rimanevano alzate.
Trockij scandiva le parole: “Che questo voto sia il vostro giuramento! Voi giurate di consacrare tutte le vostre forze, di non indietreggiare davanti a qualunque sacrificio per sostenere il soviet che si accinge a portare a termine la vittoria della rivoluzione e a darvi la vostra parte”. Le mani, innumerevoli, rimanevano alzate. La folla approvava. La folla prestava giuramento.. E la stessa cosa avveniva in tutta Pietrogrado. Ovunque si facevano gli ultimi preparativi; si pronunciavano ovunque gli ultimi giuramenti. Migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia di uomini. Era già l’insurrezione”.
Kronstadt e la flotta
Le forze rivoluzionarie di Kronstadt, il mattino del 25, ricevettero l’ordine di prepararsi a prendere la difesa del congresso dei soviet (tutta l’offensiva, infatti, si svolgeva con una pazienza formale di azione difensiva). Fermiamoci un istante sui preparativi a Kronstadt, sui quali uno dei protagonisti, I. Flerovskij, ci ha lasciato un eccellente racconto. L’elemento razionale, coordinato, la perfetta organizzazione dell’insurrezione, concepita come un’operazione militare condotta secondo le regole dell’arte della guerra, appare con la massima evidenza, in stridente contrasto con i movimenti spontanei e mal organizzati così frequenti nella storia del proletariato.
“ La preparazione per l’intervento a Pietrogrado si fece esclusivamente di notte… Il circolo navale era straboccante di soldati, di marinai e di operai, tutti in tenuta da combattimento, pronti… Lo stato maggiore rivoluzionario stabiliva con precisione il piano delle operazioni, designava le unità e gli equipaggi, faceva le assegnazioni di viveri e di munizioni, procedeva alla nomina dei comandanti. La notte trascorse in un intenso lavoro. I seguenti bastimenti furono designati per partecipare all’operazione: il lancia torpediniere Amore,la vecchia corazzata Alba detta Libertà (ex Alessandro III), il monitore Avvoltoio. L’Amore e l’Avvoltoio dovevano portare a Pietrogrado un carico di truppe. La corazzata doveva disporsi all’ingresso del canale marittimo per tenere sotto i suoi cannoni la ferrovia costiera. Un’attività intensa, ma silenziosa, proseguiva per le strade. I distaccamenti dell’esercito e gli equipaggi della flotta si dirigevano verso il porto. Alla luce delle torce non si potevano distinguere che i visi seri, concentrati, delle prime file. Non si udivano né risa, né voci. Il silenzio era solo interrotto dal martellare dei passi degli uomini in marcia, dai brevi comandi, dal passaggio dei camion rombanti. Nel porto i battelli venivano caricati in fretta. I distaccamenti, allineati sul molo, attendevano pazientemente il momento dell’imbarco.
“È mai possibile – pensavo – che questi siano gli ultimi minuti che precedono la più grande delle rivoluzioni? Tutto avveniva con una tale semplicità e precisione che si sarebbe potuto pensate alla vigilia di una qualunque operazione militare. Assomigliava così poco alle scene di rivoluzione che conosciamo dalla storia..”. Questa rivoluzione, – mi diceva il mio compagno di strada – si farà con le buone maniere”.
Questa rivoluzione si faceva con le buone maniere proletarie: con l’organizzazione. Per questo essa ha vinto – a Pietrogrado – in modo così facile e completo. Traiamo da queste memorie un’altra scena significativa. A bordo di un vascello in marcia verso l’insurrezione, il delegato dello stato maggiore rivoluzionario si presenta alla mensa degli ufficiali.
“Qui lo stato d’animo è diverso. Si è inquieti, sospettosi, disorientati. Al mio ingresso, al mio saluto, gli ufficiali si alzano in piedi. Essi ascoltano in piedi le mie brevi spiegazioni e l’ordine: “Andiamo a rovesciare il governo provvisorio, le armi alla mano. Il potere passa ai soviet. Noi non contiamo sulla vostra simpatia; non ne abbiamo alcun bisogno. Ma esigiamo che restiate ai vostri posti, adempiendo con puntualità ai vostri doveri e obbedendo ai nostri ordini. Vi risparmieremo le prove superflue. È tutto”. “Inteso!”, risponde il capitano. Gli ufficiali si recarono all’istante ai loro posti. Il capitano salì al posto di comando”.
La flotta giunge numerosa alla riscossa del proletariato e della guarnigione. Gli incrociatori Aurora, Oleg, Zabiiaka, Samson, due torpediniere, e ancora altri bastimenti risalgono la Neva.
La presa del palazzo d’Inverno
Tre compagni, Podvojskij, Antonov-Ovseenko e Lasevic, erano stati incaricati di organizzare la presa del Palazzo d’Inverno. Assieme a loro Cudnovskij, grande militante dei primi giorni, che sarebbe presto morto in Ucraina, L’antica residenza imperiale è situata nel centro della città, sulle rive della Neva; sulla riva opposta di fronte, a seicento metri, è la fortezza di Pietro e Paolo. A mezzogiorno, la facciata del palazzo guarda il selciato di una grande piazza su cui si erge la colonna di Alessandro I. Luogo storico. Al fondo, in semicerchio, i vasti edifici regolari del vecchio grande stato maggiore e del vecchio ministero degli Affari esteri. Su questa piazza, nel 1879, crepitarono i colpi dello studente Solov’èv, davanti al quale si vide fuggire correndo a zig-zag, pallido, la testa bassa, l’autocrate Alessandro Il. Nel 1881 la dinamite del falegname Stepan Chalturin esplodeva sotto gli appartamenti imperiali danneggiando il cupo edificio. Sotto le sue finestre il 22 gennaio 1905, la truppa apriva il fuoco su una folla di operai che portavano una petizione allo zar, il piccolo padre del popolo, recando li sacre icone e cantando inni religiosi, Ci furono qui una cinquantina di morti e più di un migliaio di vittime in totale; e l’autocrazia fu colpita dalle proprie palle,..
Il 25 ottobre, fin dalla mattina, i reggimenti conquistati dai bolscevichi incominciarono a circondare il Palazzo d’Inverno, sede del ministero Kerenskij. L’assalto doveva essere dato alle 9 della sera, nonostante l’impazienza di Lenin, che esigeva che si finisse più presto. Mentre il cerchio di ferro si stringeva lentamente intorno al palazzo, il congresso dei soviet si riuniva allo Smol’nyj, un vecchio istituto delle figlie della nobiltà. Ancora clandestino, poche ore prima di incarnare la dittatura del proletariato, ancora truccato da vecchio, Lenin cammin ava avanti e indietro, a passi nervosi, per una cameretta dell’istituto. A tutti quelli che arrivavano domandava: “E il palazzo? Non è ancora preso?”. Era sempre più furente contro gli incerti, i temporeggiatori, gli indecisi. Minacciava Podvojskij: “Bisogna farli fucilare, farli fucilare!”.
I soldati, accampati intorno ai bracieri, condividevano la stessa impazienza. Li si udiva mormorare che “anche i bolscevichi si mettevano a fare della diplomazia”. Ancora una volta il sentimento di Lenin s’identificava, perfino nei particolari, con quello della massa. Podvojskij, sicuro di aver in pugno la vittoria, rimandava l’assalto. L’agitazione demoralizzava un nemico condannato. Ogni goccia di sangue rivoluzionario, che si fosse potuta risparmiare, era preziosa.
Una prima intimazione di resa è rivolta ai ministri alle 6 del pomeriggio; alle 8 un secondo ultimatum; un bolscevico inviato per parlamentare arringa i difensori del palazzo; i soldati di un battaglione scelto si arrendono agli insorti; un formidabile urrah li accoglie sulla piazza trasformata in campo di battaglia. Il battaglione femminile si arrende qualche minuto dopo. I ministri, terrorizzati, in una vasta sala senza luci, scortati da un pugno di giovani allievi, esitano ancora a capitolare. Kerenskij li ha abbandonati, promettendo un pronto ritorno alla testa di truppe fedeli. Essi si aspettano di essere linciati da una folla furibonda. Il cannone dell’Aurora – che spara a salve! – finisce di demoralizzare i difensori. L’assalto dei rossi non incontra che una debole resistenza. Delle granate scoppiano sui grandi scaloni di marmo, dei corpo a corpo si formano nei corridoi. Nella penombra di una vasta anticamera una fila di allievi lividi incrociano le baionette davanti a una porta decorata. È l’ultimo bastione dell’ultimo governo borghese della Russia. An’tonov-Ovseenko, Cudnovskii, Podvojskij spostano queste baionette inerti. Un giovane sussurra loro: “Sono con voi”. Il governo provvisorio è qui: tredici signori tremanti, lamentosi, tredici visi sconvolti, nascosti nell’ombra. Come escono dal palazzo, scortati dalla guardia rossa da tutte le parti si levano grida di: “a morte”. Soldati e marinai vorrebbero massacrarli. La guardia operaia li trattiene, “Non macchiate con degli eccessi la vittoria proletaria”.
I ministri di Kerenskij vanno a raggiungere nella fortezza di Pietro e Paolo, la vecchia fortezza dove erano passati tutti gli eroi della libertà russa, i ministri dell’ultimo zar. È finito.
Nei quartieri vicini la circolazione era proseguita normale. Nei corsi dei curiosi guardavano tranquilli…
Un particolare sull’organizzazione dell’offensiva. Perché un successo momentaneo del nemico non potesse interrompere il loro lavoro, i capi militari dell’insurrezione avevano predisposto due quartieri generali di riserva.
Il congresso dei soviet
Mentre i rossi circondano il Palazzo d’Inverno, si riunisce il soviet di Pietrogrado. Lenin esce dall’ombra. Lenin e Trockij annunciano la presa del potere. I soviet offrono a tutti i paesi una pace giusta; i trattati segreti saranno pubblicati. La prima parola di Lenin sottolinea l’importanza dell’unione degli operai e dei contadini, non ancora suggellata:
“All’interno della Russia, l’immensa maggioranza dei contadini ha detto: Abbiamo giocato troppo con i capitalisti, noi marciamo con gli operai! un decreto unico, che abolisca la proprietà fondiaria, ci procurerà la fiducia dei contadini. essi comprenderanno che la loro unica salvezza è nell’unione con gli operai. noi istituiremo il controllo operaio sulla produzione…”.
Il congresso panrusso dei soviet si apre solo alla sera nella grande sala delle feste dello Smol’nyj, tutta bianca, che enormi lampadari inondano di luce. 562 delegati sono presenti: 382 socialdemocratici bolscevichi, 70 socialisti-rivoluzionari di sinistra, 36 socialisti-rivoluzionari di centro, 16 socialisti-rivoluzionari di destra, 3 socialisti-rivoluzionari nazionali, 15 socialdemocratici internazionalisti uniti, 21 socialdemocratici menscevichi partigiani della difesa nazionale, 7 delegati socialdemocratici di organizzazioni nazionali, 5 anarchici. Sala affollatissima, febbrile. Il menscevico Dan apre il congresso a nome del vecchio esecutivo panrusso, mentre si elegge la presidenza si sente tuonare il cannone sulla Neva. La resistenza al Palazzo d’Inverno sta per terminare. Kamenev “felice e con l’aria della festa” sostituisce Dan alla presidenza. Propone un ordine del giorno di tre punti: “1) organizzazione del potere; 2) la guerra e la pace; 3) assemblea costituente”. L’inizio della seduta è monopolizzata dagli interventi dell’opposizione menscevica e socialista-rivoluzionaria. A nome dei primi, Martov, il leader più probo e dotato, Martov, la cui estrema debolezza fisica sembrava manifestare, nonostante il suo grande coraggio personale,la debolezza della sua causa, “Martov, con il suo solito atteggiamento, con la mano sul fianco, una mano tremante, esangue, lui stesso contorto e bizzarro, dondolando la sua testa arruffata, chiede che si ricerchi una soluzione pacifica al conflitto…”. E’ proprio il momento! Mstislavskij prende la parola a nome dei socialisti-rivoluzionari di sinistra. Il suo partito disprezzava il governo provvisorio, era favorevole alla presa del potere da parte dei soviet, ma aveva rifiutato di prendere parte al colpo di forza. Il suo discorso era tutto una sfumatura. Tutto il potere ai soviet, certo! Tanto più che era un fatto compiuto. Ma che si arrestino subito le operazioni militari. Come si può deliberare con il rombo del cannone? A questo replicò vivamente Trockij: “Chi è che s’impressiona per il rombo del cannone? Al contrario, si può lavorare meglio!”
Il cannone fa tintinnare i vetri. Ai menscevichi e ai socialisti-rivoluzionari di destra che denunciano “il crimine che si sta compiendo contro la patria e la rivoluzione” risponde un marinaio dell’Aurora, che sale alla tribuna.
“Figura bronzea – riferisce Mstislavskij, – gesto corto che percuote senza esitare, parola che fende l’aria come un coltello, con la destra tesa, così appariva quest’uomo. Era appena salito alla tribuna, elastico ed energico, con il petto villoso incorniciato da un colletto che ondulava graziosamente intorno alla sua testa ricciuta, che tutta la sala scoppiò in applausi clamorosi… “Il Palazzo d’Inverno è finito, – egli dice – L’Aurora gli spara sopra, quasi a bruciapelo”. “Oh!”, gemette, ai suoi piedi, il menscevico Abramovic, stravolto, torcendosi le mani. “Oh!”. E rispondendo a questo lamento, con un gesto magnanimo, ma con un’inimitabile disinvoltura, L’uomo dell’Aurora lo tranquillizzò subito sussurrando forte e lasciando trapelare un riso interiore: “Si spara a salve. Ce n’è più che a sufficienza per i ministri e le donne del battaglione scelto.”. Tumulto. I menscevichi della difesa nazionale e i socialisti-rivoluzionari di destra, una sessantina di delegati, se ne vanno, per “morire insieme al governo provvisorio”.
Non andranno lontano. Il loro esile corteo, trovando le strade sbarrate dalle guardie rosse, si disperse da solo…
A tarda notte, i socialisti-rivoluzionari di sinistra si decisero finalmente a seguire i bolscevichi e a rimanere al congresso.
Lenin non salì alla tribuna che alla seduta del giorno dopo, il 26, nella quale furono votati i grandi decreti sulla terra, la pace, il controllo operaio sulla produzione. Egli apparve, accolto da un immensa acclamazione. Ne attese la fine, guardando fisso, con calma, questa folla vittoriosa. Poi disse semplicemente, senza un gesto, con le mani appoggiate al pulpito, con le spalle leggermente inclinate verso l’uditorio: “Noi cominciamo a costruire la società socialista”.

Tratto da “L’anno primo della rivoluzione russa” – Einaudi 1991. Pagg 37-56